Attualità
25 novembre, 2025La violenza contro le donne non si risolve nelle aule, dice il presidente del Tribunale di Milano, che propone il gratuito patrocinio civile a chi denuncia: “Bisogna investire di più”
Fabio Roia, presidente del Tribunale di Milano e fondatore dell’Osservatorio violenza sulle donne, lei è considerato l’ispiratore della proposta di legge che aumenta la tutela di chi subisce violenza, specie domestica e di genere, semplificando l’accesso al gratuito patrocinio nelle cause civili. Quali vantaggi introduce questa nuova legge?
«Enormi, perché molte donne hanno dei limiti di reddito che superano leggermente la soglia di ammissione al gratuito patrocinio. Abolendo questo limite di reddito per le donne che subiscono violenze, creiamo una enorme agevolazione a tutte quelle donne che, oltre ad aver agito in sede penale, vogliono agire in sede civile per l’affidamento dei figli e per la rottura del legame che noi chiamiamo tossico. Sarebbe una legge rivoluzionaria, d’avanguardia e che però comporta un impegno di risorse, ma dobbiamo comprendere che per fronteggiare bene il fenomeno della violenza contro le donne occorrono anche investimenti, a volte importanti, di risorse».
Non c’è il rischio di possibili abusi nell’avvalersi di questa nuova tutela che riguarda il rimborso delle spese legali nei procedimenti?
«È chiaro che ci può essere questo rischio, ma io non credo che una donna addirittura arrivi a presentare una denuncia calunniosa per poter ottenere un beneficio in sede civile. Sarebbe un messaggio ancora negativo per le donne alle quali spesso non viene dato credito quando denunciano situazioni di violenza. Se la legge c’è, devono esserci poi anche dei presidi di controllo. Noi partiamo sempre con la presunzione della buona fede del comportamento altrui, soprattutto quando ci si assume la responsabilità di denunciare dei fatti penalmente rilevanti».
Parliamo di un’altra legge, quella che introduce il reato di femminicidio. Approvata dal Senato, è ora all’esame della Camera. Il femminicidio come reato autonomo può contrastare il fenomeno della violenza sulle donne?
«Premesso che il fenomeno della violenza contro le donne non si risolve nelle aule di giustizia, questa norma può avere un effetto simbolico per una serie di motivi. Il primo è che nel nostro ordinamento non esiste una definizione di cos’è femminicidio, cioè dell’uccisione di una donna in quanto donna e questa norma lo descrive in maniera compiuta e racchiude tutti quelli che possono essere i motivi che portano normalmente un uomo ad uccidere una donna. Nell’esperienza che ho avuto come consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio della scorsa legislatura, abbiamo verificato che molte volte il movente è la non accettazione della rottura unilaterale del legame. L’uomo non accetta la privazione, c’è una escalation di violenza e si arriva al femminicidio. Questa legge avrebbe poi un effetto secondo me di traino sul piano della sensibilizzazione e della consapevolezza che il femminicidio non è mai un omicidio comune, ma è un omicidio che in qualche modo aggredisce una donna in quanto non si accetta che la stessa abbia degli spazi di libertà. È una manifestazione concreta e terribile di un patriarcato che esiste ancora».
L’aumento della pena può servire da deterrente?
«Onestamente non lo credo, perché già oggi è prevista in presenza di determinate aggravanti, come il rapporto di convivenza, la pena dell’ergastolo. Quindi è storia della letteratura giudiziaria che, a fronte di aumento di pene, non vi sia mai una flessione di reati e non credo possa avvenire in questo ambito, dove un uomo che è disposto a usare violenza nei confronti delle donne non può essere certamente fermato dalla prospettiva di una pena maggiore».
Cosa si potrebbe fare per intervenire a monte, per esempio con la prevenzione?
«Dobbiamo affinare quella che si chiama tecnicamente valutazione del rischio nei confronti degli uomini che agiscono con violenza. Innanzitutto c’è il problema di creare fiducia nelle reti istituzionali di accoglienza delle donne. Il sistema giudiziario non deve limitarsi a dire “denunciate”. Dopo la denuncia deve dare delle risposte efficaci di protezione, di intervento immediato. Abbiamo verificato che il problema maggiore è proprio la valutazione del rischio di escalation di questa violenza. È evidente che non possiamo adottare per tutti il carcere in fase cautelare. Dobbiamo affinare le nostre competenze in materia di validazione e valutazione degli indicatori di rischio. Per esempio se un uomo minaccia o fa uso di un’arma questo costituisce un indicatore di rischio. Se un uomo afferra per il collo una donna, questo è un ulteriore indicatore di rischio. Se un uomo ha ucciso un animale, questo può rappresentare un indicatore di rischio».
Cosa risponde a chi sostiene che sarà di difficile applicazione?
«Io non lo credo, perché la legge comprende tutte le motivazioni che la nostra esperienza ci rappresenta quando si verifica un femminicidio».
Lei è tra i fondatori dell’Osservatorio violenza sulle donne dell’Università degli Studi di Milano. Quanto è importante la conoscenza del fenomeno per aumentare la prevenzione?
«La conoscenza e la formazione costituiscono un fattore primario di prevenzione, soprattutto a livello delle giovani generazioni. Bisogna parlare di questi temi fin dalla scuola primaria, poi dalle secondarie e poi a livello universitario. Ci sono ottime esperienze di università, io conosco quelle milanesi, ma ci sono sicuramente altre università italiane, dove la materia della violenza di genere viene già inserita in corsi di insegnamento, per esempio nelle facoltà di Giurisprudenza e di Medicina. E questo è molto importante perché si favorisce la formazione degli operatori».
Lei ha parlato anche dell’istituzione di un’Autorità autonoma per contrastare il fenomeno dei femminicidi. Che ruolo e funzioni avrebbe?
«È una mia idea, che coltivo da anni. Adesso le politiche sono troppo disaggregate. Abbiamo un Dipartimento delle Pari opportunità che sta sotto la presidenza del Consiglio. Ma questo è un tema che interessa il ministero della Giustizia, quelli dell’Interno, della Salute, dell’Istruzione. Allora io credo che l’idea di creare un’autorità dedicata ad attuare le politiche e a controllare se funzionano, a fare studi statistici e a raccogliere tutti i dati, potrebbe assicurare la necessaria laicità degli interventi su questi temi. Sono temi di civiltà che devono essere affrontati al di fuori dell’agone politico».
Come chiamerebbe questa autorità?
«Autorità per la libertà delle donne».
In libreria c’è un suo nuovo libro “Mai più cosa vostra”. Perché questo titolo?
«È un libro che ho scritto con Ilaria Ramoni, avvocata esperta di mafia e di diritti umani. È un libro contro il patriarcato perché noi riteniamo che ci sia un fondamento nella violenza di genere che esiste e resiste ancora oggi. È il patriarcato! Teoricamente sarebbe stato abolito nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia. Ma non basta una legge per abolire un sentimento, una forma di cultura radicata nella nostra storia e nella nostra società. Noi riteniamo che il patriarcato sopravviva nelle nuove generazioni e continui a caratterizzare il rapporto uomo-donna, nelle relazioni di affettività, nelle relazioni lavorative e anche in contesti mafiosi».
Come valuta la riforma costituzionale varata dal Parlamento sulla giustizia e che sarà sottoposta al referendum confermativo?
«È una riforma molto pericolosa sul piano della tenuta dell’assetto costituzionale. Non c’è Paese al mondo, tranne il Portogallo, dove esiste un quarto potere, un potere dei pubblici ministeri che non vengono controllati dall’unità dell’ordine giudiziario, dalla magistratura che è costituita per 2/3 da giudici. Noi avremo un pubblico ministero che dirige la polizia giudiziaria, che si auto-controlla attraverso un Consiglio superiore composto da rappresentanti del pubblico ministero, completamente svincolato da ogni tipo di responsabilità e di controllo. È evidente che questo pubblico ministero a qualcuno dovrà rispondere e non potrà che essere il ministro della Giustizia. Del resto il ministro Nordio ha detto che questa è una riforma che potrebbe giovare anche al centrosinistra, qualora ci fosse un governo di centrosinistra. Io ho molta paura di questa disarticolazione dell’unità della magistratura. Poi c’è inevitabilmente un indebolimento del ruolo del giudice. Noi abbiamo il tema di dare efficienza alla risposta giudiziaria ma con questa riforma non si accorcia di un minuto la durata del procedimento penale. Viene anche detto che questa riforma era necessaria dopo la vicenda Palamara, peraltro molto enfatizzata, e per abbattere le correnti. Ma anche questo non è vero perché bastava intervenire con legge ordinaria. I Consigli superiori vengono eletti e modificati nel tempo con leggi ordinarie. Quindi, se si voleva introdurre il sorteggio, che peraltro è un modo abbastanza avvilente per i magistrati, perché saremmo l’unico ordine che viene eletto per sorteggio, si poteva intervenire con legge ordinaria senza sconquassare la Costituzione. Come pure per archiviare quello che viene definito il potere delle correnti, che peraltro è già stato molto ridotto con l’ultima legge che prevede un collegio unico nazionale. In assenza di voto di lista si poteva pensare al voto singolo trasferibile, adottato per esempio per l’elezione del Parlamento australiano. A questo punto penso che il vero obiettivo sia quello di indebolire l’azione della magistratura come organo terzo per poi porre il pubblico ministero sotto il controllo del ministero della Giustizia».
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