Attualità
18 dicembre, 2025Si chiama October Pattern Index. Permette di prevedere con mesi di anticipo piogge e siccità. E consiglia di prepararsi all’emergenza per garantire le piste delle Olimpiadi
Pioverà, fra tre mesi? Ci saranno siccità o alluvioni? Saperlo permetterebbe di pianificare in anticipo strategie di pace, ma anche di guerra: liberare i contadini dalla necessità di indebitarsi per comprare sementi che saranno inutili, ma anche consentire a uno Stato nemico di progettare un’invasione nel momento migliore per far muovere i carriarmati. Sembra la premessa di un thriller, e infatti lo è: lo ha scritto nel 1956 un maestro del giallo australiano, Arthur Upfield, e si intitola “The battling prophet”. In questi 70 anni, il sogno del “profeta battagliero” si è avvicinato alla realtà: l’ultimo atto è la definizione dell’October Pattern Index (Opi), firmata da un gruppo di ricerca italiano dopo anni di studi in tutto il mondo.
Nei primi giorni di dicembre ne abbiamo parlato con Riccardo Valente, ingegnere a capo di un gruppo che comprende altri due ingegneri, Fabio Gervasi e Alessandro Pizzuti, e che collabora con il Csct (Center For Study on Climate and Teleconnections) composto da Filippo Casciani, Lorenzo Allegri e Matteo Innocenti. «Siamo orgogliosi», esordisce Valente, «che un team italiano possa contribuire in modo rilevante al panorama mondiale delle previsioni stagionali, un settore dove molti Stati investono ingenti risorse».
Davvero le previsioni fatte con l’Opi si avverano al 90 per cento?
«L’Opi è un modello sviluppato per determinare con diversi mesi di anticipo la tendenza generale dell’inverno. Analizza le condizioni atmosferiche di ottobre sull’emisfero nord e ne ricava informazioni che in passato si sono dimostrate molto legate al tipo di inverno che è poi seguito. Quando parliamo di accuratezza al 90 per cento, però, non intendiamo una previsione perfetta del tempo che farà, ma la forza del legame statistico tra l’indicazione calcolata a ottobre e l’andamento medio degli inverni successivi».
Quindi avete studiato il clima invernale degli anni passati, confrontandolo volta per volta con quello del mese di ottobre?
«Il metodo si basa su quasi cinquant’anni di dati, dal 1976 al 2024. Parliamo di un campione molto ampio e affidabile: in climatologia, 30 anni sono già considerati sufficienti per trarre conclusioni solide. La varietà degli inverni analizzati — miti, rigidi, estremi o regolari — rende il risultato ancora più credibile. Sottolineo però che l’Opi è un indicatore, non uno strumento che può prevedere date, località o singoli episodi di freddo o neve. Il suo ruolo è offrire un quadro d’insieme: un utile complemento alle previsioni meteorologiche operative».
Come si comporta l’Opi rispetto ai modelli stagionali usati attualmente?
«I principali modelli stagionali, come ECMWF o CFS, sono molto complessi. Forniscono previsioni probabilistiche, e cercano di stimare anomalie rispetto al clima di riferimento. Tuttavia, la loro capacità di previsione decresce rapidamente all’aumentare del tempo di anticipo: una previsione fatta a ottobre per gennaio ha margini di errore molto ampi. In questo contesto, l’OPI fornisce un segnale statistico indipendente, mirato a cogliere pattern circolatori consolidati. Non sostituisce i modelli globali, ma li integra: aggiunge informazioni stabili e anticipa alcuni segnali che i modelli dinamici faticano a catturare con mesi di anticipo».
Com’è nata l’idea di collegare il mese di ottobre all’inverno successivo? E chi l’ha avuta?
«L’idea risale agli studi pionieristici di Dara Entekhabi, del Mit, e di Judah Cohen, direttore dell’Atmospheric and Environmental Research (AER) dell’Iowa. Nel 1999 grazie ai loro studi dimostrarono come l’estensione della neve in Eurasia nel mese di ottobre possa influenzare la circolazione atmosferica nell’inverno seguente. Dal 2013, il nostro gruppo ha collaborato direttamente con il professor Cohen, concentrandosi sullo schema della circolazione dell’aria in ottobre come indicatore della successiva circolazione invernale, con particolare attenzione a Europa occidentale e Stati Uniti centro-orientali».
Da quanti anni lavorate su questo progetto e perché lo presentate ora?
«Abbiamo alle spalle dodici anni di lavoro: ma solo recentemente, grazie all’ingresso di un informatico come Gervasi, abbiamo sviluppato un software che è in grado di analizzare tutti i livelli dell’atmosfera e di fornire informazioni molto più precise: è così che abbiamo raggiunto il livello di correlazione del 90 per cento di cui abbiamo parlato. Questo risultato può avere ricadute importanti in settori molto diversi: l’informazione anticipata permette di prepararsi e adattarsi, riducendo rischi economici e sociali. Per esempio in campo energetico l’indicazione permette di ottimizzare gli acquisti e lo stoccaggio di gas ed elettricità; in agricoltura invece si può organizzare meglio l’irrigazione e la gestione delle colture. Ma sono informazioni importanti anche per il turismo, per esempio per quanto riguarda la stagione sciistica, e sanitario, per la pianificazione del rischio climatico. Proprio riguardo al settore sanitario ci tengo a citare una recente collaborazione con l’Isde, associazione italiana dei Medici per l'ambiente».
Può spiegare a grandi linee come funziona il modello Opi?
«L’Opi valuta due aspetti chiave. Il primo è la forza del vortice polare: quando è forte, il freddo rimane confinato al nord; quando è debole, masse fredde possono scendere alle medie latitudini. Il secondo aspetto è l’attività delle onde planetarie, causate dalla rotazione terrestre, che modulano il percorso dei fronti freddi e determinano dove e quando arriveranno le fasi più fredde o miti. Questo permette di prevedere con mesi di anticipo trend stagionali di freddo e perturbazioni, ma non sostituisce le previsioni operative giornaliere che hanno una finalità diversa e risultano efficaci solo a pochi giorni di distanza dagli eventi».
Il modello è ancora in fase di sviluppo?
«Sì. Stiamo implementando algoritmi più avanzati per aumentare la precisione delle previsioni. Inoltre, abbiamo iniziato a utilizzare l’intelligenza artificiale per identificare corrispondenze tra gli output del modello e i dati osservati, con l’obiettivo di affinare ulteriormente i risultati e migliorarne la visualizzazione».
Può farci qualche esempio di situazioni che si sono verificate in inverni del passato e che sarebbe stato possibile prevedere con il modello Opi?
«Sarebbe stato possibile individuare, con incredibile anticipo, le ondate di gelo del gennaio 1985 e del febbraio 1986, le stagioni anticicloniche e secche di fine anni ’80 inizio anni 90’, l’inverno rigido e nevoso 2009-10 e, più recentemente, l’ultima grande ondata di gelo del febbraio 2018 o la stagione particolarmente nevosa del 2020-21. E sul fronte opposto, il modello avrebbe indicato il carattere estremamente mite e siccitoso delle stagioni invernali 2019-20 e 2021-22».
I vostri studi dovrebbero offrirvi un punto d’osservazione privilegiato dei segni del riscaldamento globale. È così?
«Sì, il cambiamento climatico emerge chiaramente anche nelle analisi effettuate con il nostro modello. L’Opi è calibrato su un campione molto esteso — quasi cinquant’anni di dati — e questo gli consente non solo di cogliere la variabilità naturale del clima, ma anche le tendenze di lungo periodo legate al riscaldamento globale. Per fare un esempio concreto, abbiamo analizzato l’evoluzione climatica invernale della città di Parigi dal 1976 a oggi utilizzando le anomalie di geopotenziale a 500 hPa, un parametro che descrive la circolazione atmosferica in quota e che è strettamente legato alla presenza di strutture anticicloniche o depressionarie su larga scala. Nel grafico finale, la curva dei dati realmente osservati e quella delle anomalie stimate dal modello Opi con diversi mesi di anticipo risultano molto simili e, soprattutto, le rispettive linee di tendenza coincidono quasi perfettamente. Questo indica che il modello non solo riproduce bene la variabilità interannuale, ma è anche in grado di intercettare il trend climatico crescente, che riflette una maggiore frequenza di configurazioni atmosferiche stabili, tipicamente associate a inverni più miti e meno perturbati sull’Europa occidentale. È importante sottolineare che questo trend non viene “imposto” al modello: emerge spontaneamente dalla relazione statistica tra le configurazioni di ottobre e l’evoluzione invernale. In questo senso, l’Opi si dimostra coerente con il segnale del riscaldamento globale e compatibile con l’evoluzione climatica osservata negli ultimi decenni».
E cosa si prevede per l’inverno 2026? Ci sarà neve sulle Alpi a febbraio, per le Olimpiadi invernali?
«Ad inizio dello scorso mese di novembre abbiamo pubblicato la versione completa della previsione Opi sul portale del Csct (csctmeteo.it). In sintesi, il modello Opi prevede un avvio invernale precoce sull’Europa centro occidentale – e questo si è effettivamente verificato tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre – seguito da un trend via via più stabile e con precipitazioni inferiori alla norma. Pertanto, a parte una parentesi di recrudescenza fredda dai connotati orientali che avverrà grossomodo tra fine dicembre ed inizio gennaio, nei mesi di gennaio e febbraio l’inverno sarà caratterizzato da un clima eccezionalmente anticiclonico, mite e con scarse precipitazioni. E questo porta non solo a un rischio significativo di scarso innevamento sulle Alpi durante le Olimpiadi, ma anche di conseguenze idriche per la successiva stagione estiva: fiumi più deboli, laghi più bassi e riserve d’acqua ridotte».
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