Quando entrai in casa sua lo trovai con la bocca piena di sangue. Non riusciva ad alzarsi e non beveva da giorni. Chiamai un’ambulanza, e poi non lo vidi più». Rita ricorda ogni dettaglio degli ultimi giorni di suo fratello. Manuel, meno di cinquant’anni, morì in isolamento nel marzo 2020. A Rita dissero che era morto a pancia in giù, con i polsi legati. Manuel è una delle oltre sedicimila vittime registrate nel 2020 nella provincia di Bergamo. Sua sorella Rita oggi fa parte di “Sereni e Sempre Uniti”, l’associazione che chiede giustizia per le vittime del Covid-19 in Italia. E la vicenda del fratello è parte di un processo che ha raggiunto i vertici delle istituzioni.
Le valli del silenzio
La provincia di Bergamo è stata la zona più duramente colpita dalla pandemia in tutta Europa, con un incremento di vittime del 61,9 per cento rispetto alle media dei quattro anni precedenti. A nord-est della città, la Val Brembana e la Val Seriana sono tra le aree in assoluto più colpite, con tassi di mortalità aumentati fino al 1.000 per cento rispetto agli anni precedenti. «Non sono solo numeri, ma segni di una comunità sfaldata», racconta a L’Espresso Gessica Costanzo davanti al cimitero monumentale di Bergamo, da cui nel marzo 2020 partirono le camionette militari con le bare simbolo dell’emergenza. Costanzo è una reporter locale co-fondatrice di Valseriana News, una testata che dal 2013 racconta ogni giorno il territorio. Nel cimitero non c’è un’area dedicata alle vittime del Covid-19, ma all’ingresso una sezione di lapidi nuove racconta in silenzio le ferite della comunità. «Guarda le date – dice Costanzo – quattro marzo, cinque marzo, sei marzo. Uno dietro l’altro. Un’intera generazione è quasi scomparsa a causa del virus».
Capire perché proprio in queste valli il virus abbia colpito più forte è una delle sfide che la pandemia ha lasciato in eredità. Per anni la narrazione costruita intorno alla strage si è retta intorno al tema della disgrazia del tutto imprevedibile. Ma un maxi-documento giudiziario consultato da L’Espresso racconta una storia diversa. Si tratta della corposa inchiesta realizzata dalla procura di Bergamo con l’obiettivo di individuare eventuali responsabilità penali dietro alla gestione della pandemia. Nelle migliaia di pagine depositate dalla Procura la teoria è che l’altissimo numero di morti fu causato dal ritardo nelle chiusure e dalla mancata istituzione delle zone rosse. Secondo la Procura, i decisori politici erano consapevoli della gravità della situazione e della necessità di un lockdown, ma lo evitarono o lo attuarono in ritardo per non scontrarsi con le aziende del territorio. Secondo una perizia tecnica firmata dal microbiologo Andrea Crisanti (oggi eurodeputato in quota Pd), se nella provincia di Bergamo fossero state prese le stesse misure drastiche che già nei giorni precedenti erano state prese in altre parti d’Italia, si sarebbero potute salvare tra le duemila e le quattromila vite.

Dieci anni in pochi mesi
Per capire le conclusioni dell’inchiesta della Procura di Bergamo è utile ripercorrere le tappe della gestione della pandemia. Il primo Dpcm del governo Conte arrivò il 23 febbraio, dopo la scoperta del paziente 1 a Codogno (provincia di Lodi). Il decreto mise in quarantena oltre 50mila persone in 11 comuni, dieci in Lombardia e uno in Veneto. Con l’aumento dei casi, il primo marzo furono istituite nuove zone rosse, fino al lockdown del 9 marzo, diventato ancor più stringente il 22 dello stesso mese. In quei giorni i mezzi militari sfilarono dal cimitero di Bergamo, mentre in Italia si contavano circa mille morti al giorno. Secondo la Procura di Bergamo e l’associazione Sereni e Sempre Uniti, restrizioni immediate in Val Seriana e Val Brembana avrebbero potuto contenere tutto ciò. Uno dei nodi infatti è la mancata zona rossa a Nembro e Alzano. Il 23 febbraio 2020 – lo stesso giorno in cui nel Lodigiano e nel Padovano si istituivano i primi lockdown – nell’ospedale di Alzano fu scoperto un focolaio con medici e infermieri positivi. L’ospedale venne chiuso e poi riaperto solo poche ore dopo. Nelle settimane seguenti, i morti nell’area aumentarono fino a raggiungere in pochi mesi il numero di decessi normalmente registrato in un decennio.
Come spiega il dottor Guido Marinoni, presidente dell’Ordine dei medici di Bergamo, nella gestione delle emergenze la fase più importante è la prevenzione. Uno strumento chiave è il piano pandemico, che definisce prassi e protocolli a livello nazionale e regionale. A febbraio 2020, l’ultimo aggiornamento risaliva al 2006 e non era stato testato con esercitazioni. «Mancavano protocolli chiari anche per i casi lievi ma altamente contagiosi» racconta Marinoni a L’Espresso. «A Bergamo non si è intervenuti subito e la Direzione strategica ha lasciato le strutture territoriali in uno stato di abbandono, praticamente prive di mascherine, oltre che di precisi indirizzi operativi e indicazioni di sicurezza».
La confusione che descrive Marinoni si riscontra anche nelle carte. Il 23 marzo 2020 un sindaco della zona manda su WhatsApp una foto a un rappresentante dell’azienda sanitaria di Bergamo: «Guarda cos’abbiamo scoperto. Era il 9 febbraio». L’immagine mostra una partita di calcio tra Albinoleffe e Codogno, squadre di zone ad alto contagio, giocata senza protezioni per atleti, staff e tifosi. Gli amministratori locali se ne sono accorti quaranta giorni dopo. Parlando ai magistrati di Bergamo, un noto infettivologo afferma che «il piano pandemico del 2006 non è nato per una malattia come il Covid-19» e che «non era utilizzabile per il modello Covid, perché costruito su standard datati e non aggiornati». «Non è ben definita una catena di comando» e il piano esistente «non era attuabile» perché leggendolo «non si conosce chi dà gli ordini a chi».
Ma una delle note più interessanti è del 21 marzo 2020. Parlando di come ottenere mascherine e altri Dpi, un membro dell’Istituto Superiore di Sanità scrive su WhatsApp a uno dei maggiori rappresentanti del governo: «Credo che il Ministero della Salute dovrebbe tenere la regia. Almeno per gli aspetti salute. Posso anche mettere qualcuno dei miei come supporto tecnico». La risposta dell’alto rappresentante del governo è lapidaria: «Vedi ancora molta confusione».
Chi sa e chi fa
L’inchiesta della Procura di Bergamo ha avviato diversi processi, tra cui uno civile contro Regione Lombardia, Ministero della Salute e Presidenza del Consiglio, e uno penale, in parte trasferito al tribunale dei ministri poiché tra gli imputati figuravano l’ex premier Giuseppe Conte e l’ex ministro della Salute Roberto Speranza. Nel giugno del 2023, il tribunale dei ministri ha archiviato la loro posizione ritenendo che il reato di epidemia colposa sia configurabile solo per azioni che hanno agevolato la diffusione del virus ma non per omissioni, come la mancata zona rossa in Val Seriana. Per questo nel dicembre 2024 la procuratrice aggiunta di Bergamo ha chiesto l’archiviazione anche per l’inchiesta sulla riapertura dell’ospedale di Alzano. Sereni e Sempre Uniti ha fatto ricorso alla Corte europea dei diritti umani, dove la pratica è ora al vaglio dei giudici di Strasburgo. Nel frattempo, lo scorso 10 aprile è arrivata una svolta: le Sezioni Unite della Cassazione hanno ribaltato il concetto, affermando che è possibile condannare per epidemia colposa anche in caso di omissione. Le motivazioni non sono ancora note, ma la decisione potrebbe riscrivere l’intera storia giudiziaria della pandemia.
«Io ho bisogno di giustizia» spiega Rita mentre ricorda gli ultimi giorni del fratello Manuel. «Non si tratta di giustizia fine a se stessa né di vendetta. Mi serve sapere che queste morti non sono state inutili».