Fino a 100mila euro a fondo perduto per chi si trasferisce in 33 comuni spopolati: è l’iniziativa promossa dalla provincia autonoma di Trento per contrastare il calo progressivo della popolazione nelle aree montane. Il programma prevede contributi a fondo perduto per l’acquisto e la ristrutturazione di immobili destinati ad abitazione o affitto a canone moderato. I beneficiari devono impegnarsi a risiedere per almeno dieci anni nei comuni trentini colpiti dal calo demografico. Chi ristruttura una proprietà in questi territori può ottenere fino a 80mila euro su una spesa complessiva di 200mila euro, con una copertura del 40 per cento nei centri storici e del 35 per cento nelle altre aree. Inoltre, chi acquista un immobile può ricevere fino a 20mila euro di contributi.
Questa iniziativa si inserisce in una strategia più ampia adottata negli ultimi anni per contrastare lo spopolamento delle aree interne, ovvero quei comuni italiani più periferici e con minore accesso ai servizi essenziali. Questi territori coprono circa il 50 per cento della superficie nazionale e ospitano oltre il 20 per cento della popolazione italiana.
Sull’efficacia di misure come questa, però, c’è chi nutre dubbi. «Sebbene sia presto per trarre conclusioni, sono un po’ scettica», afferma Luisa Corazza, direttrice del Centro di ricerca per le Aree Interne e gli Appennini dell’Università del Molise. «Bisogna evitare che questi incentivi finiscano per avvantaggiare cittadini delle aree urbane che non hanno reale intenzione di trasferirsi, ma che colgono un’occasione di speculazione immobiliare».
Secondo Corazza, misure come la vendita di case a un euro si concentrano più sulla valorizzazione del patrimonio immobiliare che sulla reale ripopolazione. «La maggior parte degli acquirenti è straniera: spesso si tratta di turisti che non andranno mai a vivere stabilmente in questi luoghi. Nel migliore dei casi ristruttureranno le case, ma più spesso faranno interventi sommari. Così si rischia di svendere la nostra identità e il nostro patrimonio senza ottenere il vero obiettivo: riportare abitanti nei paesi».
Anche Giuseppe Bimonte, residente a Trento ma originario della provincia di Avellino e membro del Forum Giovani Aree Interne, esprime perplessità. «Sarebbe più utile trovare soluzioni per trattenere chi già vive in questi territori o incentivare il ritorno di chi ne è originario, piuttosto che puntare solo su nuovi abitanti. Altrimenti l’obiettivo diventa esclusivamente quello di aumentare il numero di residenti, senza affrontare i problemi strutturali del territorio». E aggiunge Claudio Petrozzelli, membro del forum Giovani Aree interne: «Per fare in modo che i giovani rimangano bisogna investire sulla creazione di posti di lavoro e sulle infrastrutture digitali, che almeno nella nostra regione, l’Irpinia, sono carenti».
Negli ultimi anni, diverse riforme hanno cercato di affrontare il problema. Una delle iniziative più ambiziose è stata la Strategia Nazionale Aree Interne (Snai), avviata nel 2013. «La Snai ha rappresentato un cambio di approccio: per la prima volta si è partiti dalla carenza di servizi, anziché dagli insediamenti economici», spiega Corazza.
Finanziata con fondi di coesione tra il 2014 e il 2020, la strategia è ora entrata in una seconda fase, con un ampliamento delle aree coinvolte da 56 a 72. Tuttavia, i dati pubblicati su OpenCoesione evidenziano numerose criticità. A livello nazionale, il 20 per cento dei progetti non è ancora stato avviato, mentre il 55 per cento è in corso. Solo il 19 per cento è stato completato. La situazione più critica si registra in Calabria, dove l’87 per cento dei progetti non risulta nemmeno avviato e il 13 per cento in corso. Nessuno è stato concluso.
Secondo il ricercatore Filippo Tantillo, la Snai ha perso la sua spinta iniziale. «È diventata un mero adempimento burocratico, con carte che passano di ufficio in ufficio senza più una vera partecipazione o un supporto tecnico per i progetti. Manca una visione concreta per le aree interne e, di conseguenza, la gente continua ad andarsene». Tantillo sottolinea poi un punto cruciale: «Non sono i soldi a far restare le persone in un luogo, ma la presenza di servizi, oggi e in futuro».
Un altro importante ciclo di investimenti proviene dal Pnrr. Il piano prevedeva due principali linee di intervento. La prima riguardava le infrastrutture sociali di comunità, con un budget iniziale di 725 milioni di euro per migliorare servizi e infrastrutture sociali per almeno 2 milioni di abitanti nelle aree interne. Tuttavia, a causa di “criticità attuative”, il governo ha deciso di dirottare le risorse su altri fondi, rendendo più difficile monitorare l’effettiva realizzazione degli interventi. Una seconda grande voce di finanziamenti era destinata alle strutture sanitarie di prossimità. Secondo i dati aggiornati a dicembre 2024, finora è stato speso solo il 18 per cento delle risorse disponibili. La prossima scadenza è fissata a giugno 2026.
In generale gli investimenti che coinvolgono le aree interne previsti dal Pnrr hanno un problema strutturale. «I bandi non funzionano bene in questi territori, perché spesso si tratta di comuni molto piccoli, senza personale e competenze adeguate per gestire i finanziamenti. E si fondano sulla competizione tra paesi, uno spirito completamente opposto a quello che aveva in origine la Snai» conclude Corazza.