È nei campi coltivati. Nelle foglie dei parchi, nei giardini, nella polvere, nelle falde sotterranee. Passa tra i raccolti, si mescola col cibo, finisce nel corpo. Il glifosato è ovunque. Ed è cancerogeno. Introdotto negli anni Settanta, è il principio attivo più utilizzato al mondo per eliminare le erbacce: un diserbante che ha rivoluzionato l’agricoltura industriale sotto l’egida dell’efficienza e della resa. A chiedersi quanto fosse sicuro, da sempre, sono stati in tanti. A rispondere, senza lasciar margine di dubbio, uno studio, pubblicato il 10 giugno 2025, dell’Istituto Ramazzini di Bologna, con partner internazionali.
«Il nostro studio, per la prima volta, ha riprodotto la condizione umana. Anche i nostri bambini, attraverso il sangue della madre, sono esposti al glifosato durante la gravidanza. Così questa esposizione dura tutta la vita» spiega a L’Espresso Fiorella Belpoggi, direttrice scientifica emerita del Ramazzini, che ha guidato la più ampia ricerca indipendente mai realizzata, proprio in Italia, sul glifosato: oltre 5.000 ratti esposti, dalla gestazione fino alla morte naturale. Un modello di esposizione cronica, che simula l’esperienza umana.
I ricercatori dell’Istituto Ramazzini, insieme ai loro partner internazionali, hanno esaminato gli effetti del glifosato sui ratti, e confrontato il glifosato puro con due formulazioni commerciali: Roundup Bioflow, usato in Europa, e RangerPro, negli Usa. «Questo è un nodo cruciale. Perché nessuno di noi è esposto unicamente a una sostanza, ma a piccole dosi di composti che sono effusi dappertutto e di cui si sa pochissimo.» aggiunge Belpoggi.
I risultati sono disarmanti. Tumori in diversi organi vitali: fegato, utero, cuore, mammella, pelle, e molti altri. Poi danni al microbioma intestinale, alterazioni ormonali. Ma particolarmente inquietante è la comparsa, in età precoce, di leucemie fatali: «Abbiamo osservato numerose morti dopo meno di un anno di esposizione. Il che è rarissimo, perché il ratto è una specie molto resistente, soprattutto alle leucemie», denuncia la ricercatrice. E tutto questo già a dosi considerate sicure dalla normativa europea: 0,5 mg per kg di peso corporeo.
Eppure, ciò che spaventa di più non è il glifosato in sé, ma il suo travestimento. I cosiddetti formulati sono miscele chimiche potenziate da adiuvanti: sostanze che ne aumentano l’efficacia e l’assorbimento dalle piante. Nessuno, tranne i produttori, sa esattamente cosa contengano, perché protetti dal segreto industriale, come vere e proprie ricette segrete. «L’analisi di questi cocktail chimici ha prodotto risultati più incisivi che nel caso del glifosato puro. Insomma, le miscele sono più pericolose». E sono proprio quelle miscele a essere irrorate ogni giorno: nei campi, soprattutto, ma anche nei giardini delle scuole, nei parchi pubblici.
I dati sfidano le soglie regolatorie europee. E non sono del tutto nuovi. Nel 2015, l’Iarc, agenzia dell’Oms, aveva già definito il glifosato “probabile cancerogeno”. Classificazione che appare oggi forse troppo conservativa, ma che avrebbe già dovuto mettere in allarme.
Eppure, nel dicembre 2023, l’Efsa – Autorità europea per la sicurezza alimentare – decise di rinnovare l’autorizzazione all’uso del glifosato per altri dieci anni, fino al 2033. Secondo i suoi esperti, non c’erano elementi sufficienti per classificarlo come cancerogeno. Nessuna valutazione, però, è stata condotta sulle miscele. Solo sul principio attivo puro.
Ed è così che si apre una profondissima crepa nel sistema di valutazione dell’Autorità europea. Infatti, diverse inchieste giornalistiche, nel tempo, hanno denunciato l’inattendibilità delle ricerche esaminate dall’Efsa, denunciando che fossero finanziate, indirettamente, dall’industria chimica. In particolare, da un consorzio che comprendeva la Bayer, erede dell’azienda che ha commercializzato il glifosato per la prima volta, la Monsanto. Secondo un’inchiesta di The Guardian, risalente agli anni del rinnovo europeo, nove degli undici articoli scientifici utilizzati dall’Efsa per valutare il rinnovo non avrebbero validità scientifica. Alcuni utilizzavano metodi obsoleti, altri dati parziali, o del tutto inconcludenti. Al contrario, gli studi indipendenti che riportavano effetti tossici o cancerogeni e denunciavano già la pericolosità del prodotto, come quello dell’Istituto Ramazzini, nel 2023 ancora nelle sue fasi pilota, sono stati ignorati o sistematicamente screditati.
Una strategia deliberata per addomesticare la scienza. Strategia che emerge, inequivocabile, nel 2018, durante il processo statunitense Johnson vs. Monsanto. Processo che si conclude nell’agosto di quell’anno, quando una corte californiana condanna Monsanto al risarcimento multimilionario di Dewayne Lee Johnson, un giardiniere scolastico colpito da un linfoma non hodgkin dopo anni di esposizione professionale a Roundup. I legali di Johnson, infatti, sono riusciti a dimostrare in aula come Monsanto fosse al corrente della pericolosità del suo prodotto e non avesse fatto nulla per avvertire i consumatori. A questo scopo, hanno fatto emergere diverse email compromettenti tra impiegati e dirigenti Monsanto, in cui l’azienda ammette gravi carenze di testing del prodotto, omissioni deliberate di dati tossicologici, pressioni esercitate sui regolatori, e ghost writing di articoli scientifici senza alcuna validità. I “Monsanto Papers”, li hanno chiamati.
«Anche noi abbiamo subìto forti pressioni. Ma i dati restano dati. E noi ci occupiamo di glifosato da più di un decennio, con rigore assoluto. Il nostro modello è solido, e i numeri sono numeri.» risponde la dottoressa Belpoggi quando le viene chiesto se teme i sistematici tentativi di screditare la ricerca scientifica indipendente. «L’Istituto Ramazzini non è un centro di ricerca qualsiasi. È una cooperativa sociale, con oltre 40.000 soci. I suoi studi sono finanziati in parte da donazioni libere e in parte da collaborazioni internazionali, prestigiosissime, tra cui quelle con il Boston College e con l’Heartland Study. In passato, i nostri dati si sono rivelati sempre attendibili e validi, e non è la prima volta che siamo alla ribalta per studi così innovativi e risultati così dirompenti. Non temiamo di essere screditati, per la stima che ha la popolazione del nostro lavoro e per il metodo rigoroso che applichiamo» aggiunge.
E allora cosa può fare il consumatore per limitare la sua esposizione al glifosato, in attesa che i regolatori europei intervengano in maniera più decisiva per vietarne l’uso? Poco. Ma qualcosa, sì. «Conviene scegliere pasta prodotta con grano italiano, dove l’utilizzo del glifosato è limitato. In quella con grano canadese o americano sono state trovate tracce consistenti. Poi, preferire prodotti da agricoltura biologica, che è più controllata e che vieta del tutto l’utilizzo del glifosato. Favorire anche i grani antichi. E fare pressione sui Comuni perché vietino i diserbanti nocivi nei luoghi pubblici».
Ma sono solo argini fragili, nel mare di un’esposizione ubiquitaria: «Il glifosato è ormai diffuso in tutte le colture convenzionali. È stato rinvenuto nelle urine, nel sangue. Persino nel latte materno. È ovunque. Ed è pericolosissimo».