Attualità
9 luglio, 2025Fabbriche di automobili trasformate in catena di montaggio per carri armati e veicoli militari. In Germania ma anche in Francia. E poi nuove start up per la produzione di droni e armi potenziate dall'intelligenza artificiale. La corsa al riarmo si gioca su più livelli. Per recuperare il tempo perduto
Ogni crisi è il presupposto per una rinascita. Ed è così che il settore automobilistico, per tre decenni il fiore all’occhiello dell’economia teutonica, sta involontariamente gettando le basi della rinascita economica della prima economia europea. Sulle ceneri del motore a combustione non solo sta nascendo la nuova industria della mobilità elettrica e digitale ma soprattutto la futura industria bellica del Vecchio continente. «La nuova quantità di ordinativi del governo giustificherebbe la riconversione di alcune fabbriche automobilistiche in siti di produzione di componenti militari», aveva detto solo qualche mese fa Armin Papperger, l’amministratore di Rheinmetall, la principale azienda bellica tedesca.
Dopo avere abbandonato il rigore fiscale, il governo di destra di Friedrich Mertz ha deciso di incrementare con decisione il budget della difesa, passando dai 62 miliardi di euro del 2025 agli oltre 152 miliardi del 2029, raggiungendo in anticipo l’obiettivo del 3,5 per cento del Pil di spese in armamenti (e l’1,5 in infrastrutture) concordato in sede Nato lo scorso giugno. «Abbiamo bisogno di un aumento rapido della spesa per assicurare la sicurezza dei cittadini», ha dichiarato senza mezzi termini il ministro delle Finanze Lars Klingbeil. Secondo le stime di Nato, Germania, Polonia, Danimarca e Paesi baltici, Mosca sarebbe pronta ad attaccare il confine orientale dell’Europa in 3-10 anni.
Nelle armi nuovo motore di crescita economica
La risposta dell’economia tedesca, che nel business della difesa vede un’occasione di riscatto dal recente declino a cui la dipendenza dal gas russo e dal mercato cinese l’aveva costretta, non si è fatta attendere. Il gigante industriale Rheinmetall AG, al contempo il maggiore produttore europeo di munizioni e un importante fornitore di componenti automobilistici, il cui valore in Borsa è decuplicato dall’inizio della guerra in Ucraina, starebbe valutando l’acquisizione dello stabilimento Volkswagen di Osnabrück, nella Bassa Sassonia, che chiuderà i battenti nel 2027. Ritiene che potrebbe essere adattato con relativa facilità alla produzione di veicoli da combattimento, come il KF41 Lynx. Le due società collaborano già tramite una joint venture alla produzione di veicoli armati.
Rheinmetall starebbe considerando anche altre due fabbriche a Berlino e Neuss, che in precedenza fornivano componenti automobilistici, per la produzione di attrezzature per la difesa. Non solo. Prevede di assumere nei prossimi due anni circa ottomila persone, portando la sua manodopera mondiale a 40mila addetti. È la prima volta negli ultimi 80 anni che la società investe in Germania, a testimonianza del testacoda che l’Europa a guida tedesca ha intrapreso in seguito alla progressiva conquista russa del territorio ucraino.
Fino a oggi Rheinmetall, che al momento destina solo il 30 per cento del suo fatturato di quasi dieci miliardi di euro all’esercito tedesco, aveva aperto fabbriche soprattutto in Africa, con l’acquisto della sudafricana Denel munitions, per eludere la rigida legislazione europea sull’esportazione di armi e attrarre clienti al di fuori del perimetro della Nato. Una scelta, quest'ultima, che, con la recente evoluzione geopolitica, potrebbe essere costretta a rivedere: il Sud Africa è alleato della Russia e non intende vendere proiettili che possano aiutare la difesa ucraina.
Mentre lo scacchiere geopolitico si complica, l’azienda di elettronica per la difesa Hensoldt AG, leader nei sensori ottici, starebbe discutendo l’assunzione di circa 200 lavoratori di Continental e Bosch, due tra i principali fornitori del settore automobilistico, alle prese con il calo di ordini del comparto.
«L’industria dell’automobile sta vivendo un momento di profonda trasformazione con il progressivo abbandono del motore a scoppio, in cui eccelleva, e l'adozione della mobilità elettrica», dice Anita Wolfl, specialista industriale presso l’istituto di ricerca economica Ifo: «Le serviranno meno fabbriche e meno personale che però l’industria della difesa potrà facilmente riconvertire senza strappi per la società».
Il passaggio dalla produzione civile a quella militare non si limita all’industria automobilistica ma si estende a tutto il settore della mobilità. Recentemente, la joint venture franco-tedesca KNDS, specializzata nella fabbricazione di carri armati, ha acquistato una fabbrica di vagoni ferroviari a Görlitz dal produttore francese di treni Alstom per produrre componenti per veicoli militari, tra cui i carri armati Leopard 2A8.
Anche in Francia l’industria automobilistica sta facendo la sua parte per sostenere la rinascita di quella della difesa. Il governo francese ha chiesto a Renault di fabbricare droni in Ucraina, collaborando con specialisti locali, dopo che il gruppo Thales, specializzato in velivoli da combattimento e elettronica, aveva già firmato un accordo per una joint venture con il gruppo ucraino Ukroboronprom. Thales è una delle 40 aziende della difesa europea già presenti sul territorio in guerra, ormai diventato il banco di sperimentazione dell’industria militare moderna.
Anche nella regione centrale francese della valle della Loira, l’industria automobilistica è stata per decenni il primo settore industriale: adesso i fornitori stanno chiudendo fabbriche e dismettendo personale a tassi che ricordano quelli della crisi siderurgica che negli anni Settanta ha desertificato la regione orientale della Lorena, lasciando intere comunità impoverite e incattivite. Se nel 2023 420 aziende impiegavano più di 27mila persone nella regione della Loira, oggi 359 stabilimenti occupano 22mila persone, con un taglio della forza lavoro di quasi il 20 per cento. Ma questa volta il calo è compensato dal settore della difesa che, a forza di assunzioni, ormai impiega lo stesso numero di persone di quello dell’automobile. Jerome Garnache-Creuillot, amministratore delegato di Europlasma, ci crede fermamente e ha acquistato la Fonderie de Bretagne, un vecchio fornitore della Renault, proprio per riconvertirla e costruire proiettili da 155 e 152 mm per i Paesi della Nato. «Nessun altro settore può rimpiazzare l’industria automobilistica tanto velocemente quanto quella della difesa», ha detto alla stampa francese.
Non è la prima volta che l’industria della guerra trasforma il settore automobilistico. Era già avvenuto con la Seconda guerra mondiale, durante la quale l’industria fu convertita a usi militari: cannoni e carri armati sostituirono le decappottabili, ridisegnando completamente i processi e i prodotti, e creando novità postbelliche di successo come la Jeep. Oggi stanno nascendo invece inedite sinergie tra le esigenze dell’auto elettrica e quelle dei moderni mezzi di combattimento. Alla base ci sono due elementi: la carrozzeria, che riguarda le imprese di grandi dimensioni, e la digitalizzazione. «I fornitori di entrambe devono avere una buona elettronica e tanta tecnologia sofisticata», sottolinea Wolfl.
È il momento delle start up della Difesa
La riconversione dell’industria automobilistica e del suo indotto non sarà sufficiente a guidare il moderno riarmo europeo. I campi di battaglia non ospitano più solo carri armati o jet da combattimento prodotti da giganti come Leonardo, Airbus, Safran o Thales. La vera scoperta del conflitto ucraino sono stati i droni, piccoli oggetti intelligenti, spesso guidati da remoto, capaci di bloccare o distruggere mezzi molto più grandi e infinitamente più costosi. È successo recentemente in Ucraina e anche nello Yemen. A svilupparli sono piccole start up tecnologiche che si sono moltiplicate negli ultimi quattro anni, suscitando l’interesse di venture capitalist e anche quello dei grandi gruppi della difesa che le osservano con attenzione. Sono loro le innovatrici di questi nostri anni di riarmo, capaci di mettere a punto tecnologie inedite, da droni sempre più efficienti e letali a soluzioni avanzate per l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, ha spiegato alla stampa Julien Bek di Sequoia, che l’anno scorso ha investito 15 milioni di euro nella società tedesca di droni Stark, nata per rispondere a un’immediata esigenza operativa della Nato, come ha scritto sul sito: intelligenza artificiale, tempi brevi e costi contenuti.
Nel giro di una manciata di anni, tre di queste nuove società sono passate dallo stato di start up a quello di unicorno, ovvero di azienda che vale almeno un miliardo di euro: la tedesca Quantum Systems, la portoghese Tekever, entrambe produttrici di droni, e la tedesca Helsing.
Fondata nel 2021 da un imprenditore del settore dei videogiochi, da un ex dipendente del ministero della Difesa tedesco e e da un ricercatore in intelligenza artificiale per offrire soluzioni di Ia, Helsing è arrivata in quattro anni a produrre droni, aerei e sottomarini. Tra i primi a crederci il fondatore di Spotify Daniel Ek che, poche settimane fa, ha raddoppiato l’impegno, coordinando un secondo giro di investimenti del valore di 600 milioni di euro, guidando un gruppo di venture capitalist del calibro di Lightspeed Ventures, Accel e Plural. Ora vale ben 1,37 miliardi. Con la guerra in Ucraina, «abbiamo capito che oggi è l’intelligenza artificiale a guidare i nuovi campi di battaglia», ha detto Ek al Financial Times: «Non possiamo sottostimarne le conseguenze né per questa guerra né per il futuro». Tra le start up italiane, ancora piccole e meno prominenti sulla scena europea, spicca Ephos. Con sedi a Milano e San Francisco produce chip fotonici, che utilizzano la luce invece dell’elettricità, generando meno calore e riducendo i costi nei centri dati necessari per l’intelligenza artificiale.
Dal 2022 al 2024 l’investimento dei venture capital nell’high tech della difesa europea è passato da 373 milioni a un miliardo, secondo i dati di un recente rapporto di Dealroom: un incremento notevole che la Commissione europea sta facilitando con il recente annuncio di una regolamentazione più permissiva sul fronte dell’industria bellica. Che dovrebbe attrarre nuovi investitori e colmare il divario tra l’industria militare di ieri, congelata ai tempi della Guerra fredda, e quella digitale di domani. In un’epoca in cui la crescita dell’economia sembra non potere - o volere – fare a meno di quella degli armamenti.
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