Attualità
2 agosto, 2025Attentatori neofascisti, depistatori piduisti, Licio Gelli mandante e finanziatore: dopo 45 anni le sentenze smascherano i colpevoli. E rivelano che l'eccidio si poteva evitare
Tra tante verità spaventose, comprovate negli ultimi processi sulla strage di Bologna, una delle più atroci è che era «un attentato annunciato», come spiegano le sentenze. Diverse cordate di militari e dirigenti dei servizi segreti conoscevano in anticipo il piano criminale dei terroristi neofascisti, con cui avevano rapporti confidenziali, e non hanno fatto niente per fermarli. Non li hanno denunciati alla magistratura neppure dopo la bomba del 2 agosto 1980, che alle 10 e 25 ha sventrato la stazione dei treni causando 85 morti e oltre 200 feriti gravi. Oggi, dopo 45 anni, i verdetti definitivi spiegano che fu una strage fascista e piduista. Un massacro che si poteva evitare, perché una parte dello Stato sapeva.
«Con gli ultimi processi siamo arrivati al culmine delle verità conoscibili», dice Paolo Bolognesi, presidente dell'associazione tra i familiari delle vittime. «A Bologna, per la prima volta, ora conosciamo anche i nomi dei mandanti e dei finanziatori di una strage nera. Sappiamo chi l’ha organizzata, chi l’ha eseguita, chi ha pagato i terroristi. E abbiamo scoperto che i depistaggi, le false testimonianze continuano ancora oggi, come confermano le sentenze più recenti. I vertici dei servizi dominati dalla P2 non hanno mosso un dito per fermare i terroristi. E dopo la strage li hanno aiutati con i depistaggi».
Come esecutori dell’eccidio di Bologna sono stati condannati, con diverse sentenze definitive, cinque neofascisti. Per primi sono stati arrestati (dopo mesi di latitanza e molti altri omicidi) Giuseppe Valerio detto Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, i due capi e killer dei Nar, la feroce banda armata con base a Roma. Nonostante rumorose campagne innocentiste, sono stati riconosciuti colpevoli già nel 1995 dalle Sezioni unite della Cassazione, il massimo livello della giustizia italiana. Poi, in un processo separato, è stato condannato come loro complice anche Luigi Ciavardini, uno squadrista romano di Terza posizione, reclutato a soli 17 anni per l’omicidio del magistrato Mario Amato e la successiva strage alla stazione.
Già quella prima istruttoria ha portato alla condanna definitiva di Licio Gelli, il capo della loggia P2, come burattinaio dei tanti depistaggi organizzati dai vertici piduisti dei servizi, per deviare le indagini verso false piste estere. L’ultima istruttoria è stata avviata nel 2018 dalla Procura generale di Bologna grazie a nuove prove scoperte dagli avvocati e consulenti dei familiari delle vittime.
Tra il 2020 e il 2024 è stato condannato in tutti i gradi di giudizio Gilberto Cavallini: era l’armiere e tesoriere oltre che killer dei Nar, ed è il camerata che ha agganciato i neofascisti romani ai terroristi veneti di Ordine Nuovo, quelli che erano protetti dai servizi piduisti già negli anni delle stragi di Piazza Fontana, Peteano e Brescia.
Il processo finale si è chiuso un mese fa con la condanna anche in Cassazione di Paolo Bellini, un killer emiliano con un curriculum impressionante: neofascista di Avanguardia Nazionale, reo confesso dell’omicidio nel 1975 di uno studente emiliano di sinistra, poi diventato ladro d’arte e assassino di ex complici, quindi sicario e bombarolo della ’ndrangheta, ma anche infiltrato in Cosa nostra, in contatto con i boss delle stragi del 1992-93. Secondo i giudici, era «una pedina» dei servizi deviati.
I cinque terroristi di destra hanno ammesso molti altri omicidi, ma per la bomba di Bologna si sono sempre proclamati innocenti. Gli ultimi processi, però, hanno fornito nuove prove della colpevolezza di tutti i condannati. Che è confermata anche dai tre «preannunci» della strage.
Nel luglio 1980 un militante di destra, Vettore Presilio, detenuto a Padova per reati comuni, riceve confidenze allarmanti da un compagno di cella: un neofascista legatissimo al big cittadino Massimiliano Fachini. Il recluso è infuriato con i giudici veneti e si sfoga con Presilio, lasciandosi scappare che la pagheranno cara. Una banda di terroristi neri sta preparando l’omicidio di Giancarlo Stiz, il giudice di Treviso che fu il primo a indagare sui neofascisti veneti per Piazza Fontana. Il camerata rivela che quel delitto sarà preceduto da un attentato clamoroso.
Presilio chiede un colloquio al tribunale di sorveglianza. Il caso è assegnato a Giovanni Tamburino, che era stato il giudice istruttore della “Rosa dei venti”, la prima inchiesta sui rapporti tra destra eversiva, massoneria e servizi segreti, che fu trasferita a Roma e poi insabbiata. Sul progetto di omicidio, Presilio ha avuto notizie precise: i terroristi si sono attrezzati per fermare il giudice con un finto posto di blocco.
Non essendo possibile indagare su reati futuri, Tamburino si rivolge a un colonnello dei Carabinieri, che lo indirizza al capo-centro a Padova del Sisde, il servizio segreto civile. Ancora in luglio, quindi, il dirigente del Sisde incontra il magistrato di sorveglianza. Dopo la strage del 2 agosto, quelle anticipazioni offrono una traccia straordinaria: gli stragisti della stazione sono gli stessi che volevano ammazzare Stiz. Le successive indagini confermano che i tre terroristi dei Nar erano venuti in Veneto, ospiti proprio di Fachini, anche per organizzare l’omicidio del giudice simbolo di Piazza Fontana. E si erano già procurati le divise e rubato una macchina adatta a inscenare il finto posto di blocco, proprio come diceva Presilio.
Quel dossier scottante però è sparito dagli archivi dei servizi. Nel nuovo processo, viene quindi interrogato l’allora capo-centro del Sid, un generale ormai in pensione. Messo a confronto con Tamburino, nega addirittura di averlo incontrato. E viene sbugiardato, tra l’altro, dagli appunti conservati dal magistrato. Rinviato a giudizio, muore all’inizio del processo. Le sentenze confermano che ha mentito per coprire i depistaggi dei servizi.
Sempre nel luglio 1980, il centro Sisde di Bolzano affida una missione segreta a Roma a uno strano “collaboratore esterno”: il colonnello Amos Spiazzi. Ammirato da legioni di giovani neofascisti, l’ufficiale fa centro: nella capitale incontra almeno due capi dei gruppi eversivi di nuova generazione. A fine luglio trasmette al Sisde un dossier profetico, dove spiega che «dai Nar e Terza posizione» si è staccata «una nuova banda armata» che riceve «finanziamenti» misteriosi, «in contanti», per comprare «armi ed esplosivi senza limiti di prezzo», con cui organizzare attentati «di livello militare». È un’anticipazione non solo della strage, ma anche dei pagamenti ai terroristi, che le sentenze di oggi attribuiscono a Licio Gelli.
Dopo la bomba del 2 agosto, lo stesso Spiazzi spiattella in un’intervista il soprannome della sua fonte principale: è Francesco Mangiameli, il leader di Terza posizione in Sicilia. Fioravanti e Mambro hanno dormito a casa sua nella seconda metà di luglio del 1980, mentre preparavano l’attentato di Bologna. Mangiameli lo ha capito e si è scontrato con loro. Il 9 settembre 1980, il camerata che si opponeva alla strage viene ammazzato, per farlo tacere per sempre, da Fioravanti, Mambro e altri killer della loro super banda, che si facevano chiamare «i sette magnifici pazzi».
Ancora nel luglio 1980, un ufficiale dei Carabinieri di Genova, Piergiorgio Segatel, probabilmente allertato dai servizi, ha contattato una sua fonte neofascista, chiedendole notizie su una strage in preparazione. Dopo il 2 agosto, è tornato a trovarla, facendole notare che l’eccidio si era verificato. Convocato al processo nel 2019, ha dovuto ammettere gli incontri, ma ha negato di aver saputo in anteprima della bomba, contro ogni evidenza. I giudici lo hanno condannato a sei anni, che vista l’età sta scontando in detenzione domiciliare.
«Ci sono verità che certi militari e generali non possono dire neanche dopo 40 anni, perché sono sconvolgenti ancora oggi», commenta Paolo Bolognesi. «Le ultime sentenze ci spiegano che Gelli ha ordito i depistaggi perché era il mandante e finanziatore della strage. Al livello più alto oggi vediamo lui, che è il vertice conosciuto della P2. Ma le indagini rivelano che della loggia segreta facevano parte almeno altre mille persone, rimaste sconosciute. È questa la verità che ci manca».
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