Attualità
20 agosto, 2025Ordinanze-proclami, divieti e restrizioni. Talvolta bizzarri o classisti. Niente pranzo al sacco: solo servito. E chi non può permetterselo ha inventato la staycation
Vietato girare in costume da bagno, vietatissimo chiedere l’elemosina. Non si può bere e bivaccare sulle panchine né sostare in piazzetta o sedersi per strada. E che non venga in mente a nessuno di fermarsi a mangiare una focaccia. A meno che non sia stata pagata a peso d’oro e consumata in appositi dehors. A Portofino, a forza di divieti, viene da chiedersi cosa ci sia ancora di lecito. E la risposta, nel Comune con il reddito medio più alto d’Italia, non può che essere una: pagare.
Ogni anno, l’estate porta con sé la polemica sul turismo di massa e i suoi effetti dannosi, mentre sui visitatori si abbatte la scure delle ordinanze. «Niente movida qui, niente ubriacature. A causa dell’abuso di alcol, c’è chi fra i senzatetto assume comportamenti antisociali e inaccettabili. Portofino vuole essere, e resterà sempre, un’oasi di tranquillità», ha dichiarato fiero il sindaco Matteo Viacava. Ma non è il solo ad aver preso di mira chi non rientra nell’identikit di turista “ideale”. La stagione delle zone rosse è una costante dal 2019, quando l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini lanciò la sua «guerra al degrado urbano». Alla stretta già prevista dal decreto Sicurezza si aggiunse la possibilità per i prefetti di delimitare aree «sensibili» e disporre ordini di allontanamento. E fra tutti i prefetti, il primo a sperimentare il divieto è stato proprio il futuro capo del Viminale Matteo Piantedosi, a Bologna. Un modello poi replicato in città come Firenze, Venezia, Roma e Verona. Le misure securitarie adottate da sindaci ed enti locali vengono spesso raccontate come una forma di tutela contro l’overtourism e a favore del decoro. Parola che spesso diventa uno strumento politico per selezionare chi può stare nello spazio pubblico. Così, le città si trasformano in vetrine controllate, mentre vengono allontanati poveri, giovani, migranti, e chiunque non sia conforme al modello dominante.
«Il turismo è un diritto riconosciuto nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Non si può limitarne l’accesso», spiega Claudio Visentin, docente del corso di laurea in Turismo internazionale dell’università della Svizzera italiana. «Ma c’è anche il diritto, secondo me prevalente, della comunità locale a vivere il proprio spazio. Servono quindi limitazioni, ma che non siano di classe». «Il punto è che non parliamo di un’industria di bulloni: non serve produrre all’infinito. Raggiunta una certa soglia, bisogna fermarsi», prosegue il professore. Molte amministrazioni lo hanno capito: «In Canton Ticino, le seconde case non possono superare il 20% delle abitazioni. È una limitazione forte, ma necessaria per evitare che i paesi diventino deserti di case vuote». Le barriere economiche all’ingresso, invece, non sempre si rivelano efficaci. «A Venezia – osserva Visentin – il contributo d’accesso non ha ridotto l’afflusso di una sola unità. Un’ordinanza può anche portare introiti, ma se non risolve il problema va corretta». Un esempio analogo è quello del Parc Güell di Barcellona, limitato a 1.400 visitatori all’ora. Una restrizione che ha tolto uno spazio pubblico ai residenti, senza ridurre il sovraffollamento. Daniel Pardo Rivacoba, attivista appartenente al collettivo che ha organizzato le proteste anti-turismo a Barcellona, ha definito la misura un esempio di «gestione della città come fosse un parco a tema: un modo di fare turismo solo per le élite».
L’overtourism spesso è il bersaglio dichiarato, il male evidente da estirpare come le piante infestanti. Ma il sospetto è che insieme alle erbacce, a colpi di ticket, multe e zone rosse, vengano estratte e gettate via anche le radici delle città. Se dehors e divieti fagocitano gli spazi pubblici, a farne le spese sono sì i viaggiatori con poca capacità di spesa, ma anche i residenti. Le panchine, i muretti, le scalinate, sono occasioni di socialità pubblica fuori dalle logiche di consumo, lì le persone si incontrano, conversano e creano comunità. Sono i terzi luoghi, spazi che non appartengono né alla sfera domestica né a quella lavorativa, ma che garantiscono ai centri urbani un respiro sociale e democratico. Valori che in molti sono pronti a sacrificare sull’altare dell’experience. Così accade che a Specchia, in provincia di Lecce, il Comune decida di vietare qualsiasi iniziativa politica nel centro storico durante l’estate per «non turbare la serenità» del turista-cliente. Niente comizi, niente volantini, niente dibattiti: la piazza, cuore del confronto civile, diventa un salotto di plastica, dove l’unico dialogo ammesso è quello tra visitatori e commercianti.
Le spiagge, poi, sarebbero il terzo luogo per eccellenza. Le coste italiane sono per legge un bene comune, accessibile a tutti. Negli anni sono state frammentate da concessioni in deroga, recinzioni e servizi a pagamento che ne limitano l’uso spontaneo. Succede a Mondello, dove chilometri di arenile sono occupati dagli stabilimenti, lasciando briciole di sabbia libera e imponendo di fatto un modello a pagamento. Oppure a Castel Volturno, dove una madre con tre figli, pur avendo pagato l’ingresso a un lido, è stata costretta a buttare via il pranzo portato da casa e acquistare quello venduto dallo stabilimento.
Intanto, un italiano su quattro passerà l’estate a casa. Secondo un sondaggio di YouGov, il 25 per cento della popolazione ha deciso di non partire. È la staycation, le ferie in quattro mura, un neologismo che ammanta di glamour le drammatiche costrizioni del carovita. Non una scelta, ma una necessità, visto che le vacanze costano in media il 30 per cento in più rispetto ai livelli pre-Covid. Non sorprende neanche l’allarme lanciato da Assobalneari, che registra un crollo del 20-30 per cento nelle presenze in spiaggia nei giorni feriali. Quella del 2025 rischia di essere ricordata come l’estate dei lidi vuoti, degli ombrelloni chiusi e di un dubbio che serpeggia tra imprenditori e balneari: non è che adesso, dopo la guerra all’overtourism combattuta con prezzi a tre cifre per una cabina e frise al costo di un risotto, ci ritroviamo in pieno undertourism? A tranquillizzare tutti ci ha pensato la ministra Daniela Santanchè, che ha liquidato le voci di crisi, assicurando che l’Italia è salda «al top nel Mediterraneo».
E, in ogni caso, col decreto Economia è già pronto l’aiutino: 120 milioni di euro in tre anni per hotel, stabilimenti, bar e ristoranti. Un superbonus per acquistare o ristrutturare alloggi da destinare ai lavoratori stagionali a prezzi calmierati. L’intervento, sulla carta, dovrebbe affrontare il problema reale del caro-affitti per i lavoratori stagionali. Ma, a ben guardare, il meccanismo è costruito in modo da avvantaggiare soprattutto i proprietari e i gestori delle strutture: sono loro a ricevere fondi pubblici per acquistare o ristrutturare immobili, con la promessa di affittarli ai dipendenti per cinque anni a un prezzo ridotto del 30 per cento. La quota “mancante” rispetto al mercato verrà comunque rimborsata dallo Stato. Alla fine del periodo, gli imprenditori si ritroveranno con case ristrutturate di proprietà, libere da vincoli, pronte per essere sfruttate sul mercato o rivendute. Un’operazione che di fatto trasferisce ricchezza pubblica a un settore già protetto e ad alta rendita, senza intaccarne la logica speculativa. Fanno il deserto e la chiamano staycation.
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