Attualità
23 agosto, 2025Militari esposti per decenni alle fibre tossiche nello svolgimento del proprio lavoro. Che dopo anni si ammalano gravemente. Ma dal ministero si alza un muro di silenzio
Nelle scorse settimane il ministero della Difesa è stato condannato a pagare 600mila euro ai familiari di Rolando Cerri, luogotenente della Marina Militare deceduto nel 2013. Dal 1966 al 2004 Cerri aveva lavorato tra basi di terra e unità navali di vecchia generazione. 38 anni di servizio che lo avevano portato ad ammalarsi di mesotelioma pleurico a causa della costante esposizione all’amianto.
Fino a pochi decenni fa l’amianto veniva usato ovunque nei mezzi e nelle apparecchiature militari. Anche quando è stato messo fuori legge, nel 1992, ha continuato a far ammalare le persone perché i tempi di bonifica sono andati per le lunghe. In Italia è in corso una strage silenziosa che ancora deve arrivare al suo picco, visto che ci vogliono decenni per vedere gli effetti dell’amianto sul corpo. In questi anni, centinaia di militari hanno intrapreso battaglie giudiziarie contro lo Stato italiano. Che però fa di tutto per negare la sua responsabilità.
«Per 27 anni io e altri colleghi abbiamo respirato fibre cancerogene senza protezione. Nessuno si è mai preoccupato di noi». Nicola Panei ha 76 anni, è un maresciallo dell’Aeronautica Militare in congedo. È stato impiegato fino al 1995 nel servizio antincendio e in questo ruolo ha indossato tute, maneggiato coperte, adoperato fusti e lavorato in ambienti che avevano un elemento in comune: la presenza di amianto. Parecchi anni dopo il congedo ha iniziato a soffrire di tosse e difficoltà respiratorie e nel 2010 si è sottoposto ad accertamenti. Gli è stata diagnosticata l’asbestosi, una patologia polmonare cronica dovuta all’inalazione di fibre di amianto.
Il rapporto ReNaM (Registro Nazionale Mesoteliomi) 2024 dell’Inail parla di circa 37mila casi accertati di questa malattia in Italia dal 1991. In termini professionali, il 4,8 per cento dei casi riguarda il settore delle forze armate e oltre un terzo degli ammalati è stato esposto all’amianto nello svolgimento della sua mansione. Come sottolinea il rapporto, il personale addetto alla manutenzione meccanica degli autoveicoli può aver operato direttamente su materiali contenenti amianto. L’esposizione ambientale ha potuto interessare anche il personale di bordo delle navi e il materiale era presente in molti dispositivi di protezione individuale per la ricarica delle armi e l’uso di armamenti su mezzi mobili.
Il risultato è un’epidemia silente, una strage ancora lontana dal picco visto il lungo periodo di latenza della malattia. L’età media alla diagnosi è di circa 72 anni, ma l’inizio dell’esposizione ha una mediana bassissima, circa 20 anni. Questo significa che il personale militare italiano ha avuto a che fare con l’amianto sin dalle sue prime mansioni e che si è ammalato quando era ormai in congedo.
«Molti colleghi sono morti, molti moriranno, molti sono malati», denuncia Panei. «Ci troviamo a dover lottare per ottenere un riconoscimento da quello stesso Stato che abbiamo servito per decenni. E che ora ci ha abbandonato». Negli ultimi anni centinaia di militari e loro familiari hanno fatto causa al ministero della Difesa perché venissero riconosciute le sue inadempienze nella tutela della salute. L’avvocatura dello Stato si è sempre opposta, contestando le diagnosi e i nessi di causalità tra malattia e professione.
L’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio amianto, ha seguito molti di questi procedimenti. «Solo nelle forze armate si parla di più di quattromila decessi per amianto, di cui 1.300 per mesotelioma. Il picco dovrebbe arrivare intorno al 2030», spiega. Nel 1992 l’Italia ha messo fuori legge l’amianto, ma già da diversi decenni ne era stata vietata l’esposizione in ambito professionale. Eppure nel settore militare si è continuato a usare il materiale. Le cose non sono cambiate dopo la messa al bando del 1992. «C’è stato un grosso ritardo nella bonifica dei mezzi militari, soprattutto in Marina. Pensiamo alla nave Vittorio Veneto, dismessa solo nel 2006», sottolinea Bonanni. «In molte caserme poi la bonifica è ancora in corso».
Le cause contro lo Stato italiano spesso vengono portate avanti dai familiari dei militari. Luigi Abbate, 52 anni, è figlio di un sottufficiale della Marina deceduto nel 2020. La commissione medico-ospedaliera aveva riconosciuto l’asbestosi contratta nel corso delle sue mansioni militari. La commissione di verifica ha poi negato il rapporto di causa-effetto. «Mio padre aveva alle spalle anni di imbarco su navi che per ammissione della stessa Marina militare erano cariche di amianto», sottolinea Abbate. «Fa male vedere che chi ha servito lo Stato è stato ingannato durante il suo lavoro, ma anche una volta deceduto. Queste persone sono state uccise due volte, è omicidio di Stato». Nel 2024 la famiglia Abbate ha vinto la causa contro il ministero della Difesa e con i tempi biblici consueti arriverà un risarcimento. Il figlio di un altro ufficiale dell’Aeronautica deceduto per asbestosi racconta di come la sua famiglia abbia portato avanti per anni una battaglia giudiziaria contro lo Stato italiano. Alla fine la madre, vedova del militare, ha ottenuto un risarcimento, ma è morta poco dopo, ormai anziana.
Anche Salvatore Galeotafiore, 59 anni, si è battuto a lungo per la causa di suo padre, un appuntato dell’Arma dei Carabinieri morto nel 1981 per tumore alla laringe. Numerose certificazioni hanno confermato che nel corso delle sue mansioni è stato esposto ad amianto e altre sostanze tossiche. «Anni di mail, pec, telefonate al ministero hanno trovato davanti un muro», sottolinea. «Sono arrivati a dirmi che non era stato trovato il momento dell’innesco della malattia, come fosse un decesso per arma da fuoco». Da qui la decisione di muoversi attraverso la magistratura, fino alla vittoria della causa a inizio 2025. «Niente riporterà indietro mio padre, ma è stato riscattato quello che ha dato all’Arma».
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