Attualità
28 agosto, 2025Il piano carceri di Nordio prevede di agevolare il passaggio dei detenuti tossicodipendenti alle comunità di recupero. Ma, le comunità terapeutiche non sono pronte
Tanto la premier, quanto il ministro Carlo Nordio nel suo piano carceri di luglio hanno ribadito l’impegno ad agevolare il passaggio dei detenuti tossicodipendenti alle comunità di recupero. Ma, in assenza di altri interventi, le comunità terapeutiche non sono pronte. Questione di cifre e non solo: la platea di tossicodipendenti in carceri idonee per un percorso di cura in comunità comprendeva il 29 per cento del totale a fine 2023, ovvero 17.400 detenuti circa. I posti letto disponibili nelle strutture, però, sono 13.000.
«Dire: faremo una lista di strutture per ricevere i detenuti, non basta – dice Massimo Barra, direttore della fondazione Villa Maraini, che si occupa di terapia e cura di dipendenze a Roma dal 1976 – noi non chiudiamo mai, abbiamo un presidio che può garantire cure 24 ore al giorno sette giorni su sette a 30 persone, ma ci mancano risorse. Per anni, dalla Regione Lazio abbiamo ricevuto 50 euro al giorno per paziente, una cifra non sufficiente. Adesso servono risorse e serietà: se il governo volesse far uscire e curare 200 persone si potrebbe fare, basta volerlo».
Andrebbe potenziato il numero dei posti letto e andrebbero create le condizioni perché la custodia sia garantita in condizioni di sicurezza per tutti. Nel corso degli anni, il numero di consumatori di cocaina è aumentato in maniera esponenziale, e questo ha avuto ripercussioni sulla popolazione carceraria: «Nel crimine organizzato ci sono molti cocainomani, potenzialmente violenti e con una soglia del dolore molto alta. Queste persone sono più difficili da gestire in sicurezza per un operatore», afferma Marco Strano, criminologo e direttore del dipartimento di psicologia militare del sindacato dei carabinieri Unarma.
Il rischio, per un settore sottofinanziato, non è tanto quello delle evasioni («Non conviene al detenuto, perderebbe i suoi benefici», dice Barra), quanto la mancanza di sorveglianza all’interno delle comunità. Se è vero che i controlli sono all’ordine del giorno, diverse strutture si sono trovate impreparate a gestire ospiti socialmente pericolosi: come Dorian Petoku, inviato dalla Corte d’Appello di Roma nella comunità San Pio di Nola. Malgrado la condanna a 12 anni per traffico internazionale di droga il narcotrafficante, ora a Dubai in attesa di estradizione, aveva trasformato la permanenza in comunità in una vacanza. Libero di comunicare con l’esterno, si concedeva il lusso di far arrivare anche cibo per cene gourmet.
Del resto a Rebibbia, a Roma, tra il 2017 e il 2024 era stato creato un “sistema” per rilasciare perizie di tossicodipendenze false ai detenuti. Un tema che lo psichiatra Corrado De Rosa conosce bene: «Chi ha una dipendenza e un legame con la criminalità, potrebbe usare la comunità come una zona grigia per continuare a delinquere con meno restrizioni». Pur favorevole a una valorizzazione delle strutture di recupero, De Rosa pone una condizione: «Va bene, ma solo dopo aver messo in piedi un sistema di controlli sulla gestione delle terapie, sull’efficacia dei percorsi di recupero e sulla selezione dei pazienti». Altrimenti, si rischia di ripetere il sistema dei “falsi folli” degli anni ’70-’80, come per i killer di Cosa Nostra, i membri della banda della Magliana o il camorrista Michele Senese.
La molla che ha spinto a imboccare la deflazione carceraria è la percentuale abnorme del sovraffollamento carcerario: 62.000 detenuti contro 51.000 posti, di cui 4.500 neppure disponibili. Le percentuali variano, ma anche stando al dato del ministero della Giustizia, i penitenziari sono pieni al 133 per cento.
Vanno alleggeriti, ma poiché di detenuti si tratta, spostarli in comunità non è solo questione di accoglienza ma anche di uomini. «Se un detenuto deve uscire per una visita medica, va accompagnato da un operatore. Questo ci lascia sguarniti. La Regione ci paga solo 150 euro al giorno per l’accompagnamento. Certo, se dovessimo guardare l’aspetto economico, non faremmo questo lavoro, ma abbiamo un atteggiamento pragmatico, siamo terapeuti. E lo shock della realtà è quotidiano per noi». Come dire: non bastano i proclami.
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