Attualità
5 agosto, 2025Lo sgombero dei palazzi di Scampia ha lasciato molte famiglie senza casa. E, nonostante gli aiuti del Comune, tanti si rifiutano di affittargliene una. Così una comunità rischia di sfaldarsi
«Massimo due bambini, niente animali, no ex carcerati». Sono le condizioni poste da molti proprietari per affittare casa agli abitanti di Scampia, da mesi alla ricerca di un alloggio dopo lo sgombero delle Vele, ultimato a dicembre 2024. «Mio fratello ha quattro figli, gli altri due che fa, li butta?», si chiede con malcelata amarezza la signora Mariangela. Dopo 14 anni nella Vela celeste, da più di dieci mesi vive con i figli di sette e nove anni in una stanza un po’ ammuffita dell’Officina delle Culture Gelsomina Verde, un centro polifunzionale nel cuore di Scampia.
Da quando, la sera del 22 luglio 2024, il crollo di un ballatoio ha provocato tre morti e una dozzina di feriti, per la comunità delle Vele è iniziato l’ennesimo calvario. Lo sgombero, preludio all’abbattimento, è stato bruscamente accelerato. Il Comune di Napoli ha stanziato un contributo economico per fronteggiare l’emergenza abitativa: tra i 400 e 1.100 euro al mese, a seconda del numero di familiari. Ma per molte delle 500 famiglie sfollate trovare casa si è rivelata una missione quasi impossibile: «Appena i proprietari scoprono che veniamo da Scampia, accampano scuse», recrimina Mariangela. Il volto tirato e gli occhi velati di tristezza tradiscono lo stress accumulato negli ultimi mesi. Mentre racconta le sue traversie, posa spesso lo sguardo sui figli, intenti a scarabocchiare appoggiati all’unico tavolo nella stanza. «Se noi adulti stiamo male, figuratevi i bambini: sono distrutti. Hanno perso casa, amici e compagni di scuola».
Che fine ha fatto il popolo delle Vele? Chi è rimasto a Scampia, si è arrangiato a casa di parenti o amici. Gli altri hanno intrapreso una ricerca frustrante e spesso infruttuosa nell’hinterland napoletano. I più sfortunati sono finiti a Castel Volturno e a Mondragone, nel Casertano. «Ho girato a piedi i Comuni a Nord di Napoli per mesi. Quando mi hanno richiamato, non ci speravo più», confessa Valentina, la sorella di Mariangela, che presto si trasferirà con i figli ad Arzano, a pochi chilometri da Scampia. Mariangela e Valentina hanno lasciato per sempre la Vela celeste la sera stessa del crollo. «Abitavo dal lato del cedimento. Uscendo di casa, avevo il vuoto davanti», ricorda Valentina. «I tre morti erano parenti nostri. E poi c’è Martina, una bambina che è stata operata alla testa e non sappiamo se si riprenderà», aggiunge Mariangela.
Le due sorelle hanno trovato riparo all’Officina delle Culture Gelsomina Verde, una ex scuola che la camorra aveva convertito prima in un deposito di armi, poi in una base di spaccio. «Per due mesi, qui dentro hanno vissuto 52 persone: un inferno. In certe stanze dormivano in dieci», racconta Ciro Corona, presidente di Resistenza Anticamorra, l’associazione che gestisce la struttura dal 2012. «La fase degli sgomberi è stata gestita male – denuncia – hanno voluto fare in quattro mesi ciò che non è stato fatto in 40 anni».
Per Mirella La Magna, fondatrice del Gridas, il crollo ha accelerato un processo che si trascinava da anni. «Sapevamo che le Vele sarebbero state abbattute, ma il momento non arrivava mai». In questi anni, ogni volta che una famiglia lasciava le Vele per trasferirsi nei nuovi alloggi, si rimuoveva la scala per l’abitazione e si murava l’ingresso. «Ma la camorra, per duemila euro, montava scale di ferro per permettere nuove occupazioni. Non si finiva mai di sgomberare».
Il Comune di Napoli ha dichiarato le Vele inagibili già nel 2016. «E allora perché hanno permesso a tante famiglie di occuparle, anche di recente?», si chiede Elvira Quagliarella, maestra delle elementari nella scuola Virgilio IV, a poche centinaia di metri dalle Vele. Sfoggia orecchini turchesi che si abbinano perfettamente ai suoi occhi grigio-azzurri. Ha modi gentili e pacati e una voce delicata. Era poco più che ventenne quando, nel 1983, mise piede a Scampia per la prima volta. «Qui attorno c’era solo terra incolta. Qualche masseria, pecore al pascolo. E poi le Vele: gigantesche, sembravano dei mostri».
Terreno incolto. Pare che Scampia derivi da scampo, ossia campo abbandonato. Come se il nome contenesse in sé il destino del quartiere. Oggi la speranza si chiama Restart Scampia, il progetto di rigenerazione urbana che prevede la costruzione di 433 nuovi alloggi sulle ceneri delle Vele. Nel frattempo, però, c’è da fare i conti con incertezze e disagi. «I primi ingressi sono previsti per il 2027», assicura il presidente dell’ottava Municipalità Nicola Nardella. Ma non tutti ci credono. «Nel quartiere si dice che i lavori non saranno ultimati per quella data. I tempi si dilatano, diventano biblici», osserva Quagliarella.
Il sussidio varato dal Comune non è bastato a rassicurare i proprietari. «Chi ha vissuto alle Vele si porta dietro un marchio», sottolinea Quagliarella. Molti padroni di casa hanno posto condizioni irricevibili. «Alcuni ci davano appuntamento e poi non si presentavano. Altri pretendevano che pagassimo ristrutturazioni per migliaia di euro. E c’è chi, preso dalla disperazione, ha accettato», racconta Mariangela. Non tutto, però, può essere ricondotto allo stigma e al pregiudizio. I proprietari temono che il contributo, garantito fino alla fine del 2025, possa essere sospeso. «L’accordo col governo prevede che sarà rinnovato fino all’assegnazione dell’immobile», rassicura Nardella.
Oggi quella comunità, un tempo unita nella lotta per il diritto all’abitare, è disseminata tra l’area a Nord di Napoli e il litorale domizio. «Prima stavamo tutti assieme. Ora abbiamo perso gli amici, la compagnia. Ognuno è finito in un posto diverso», spiega Mariangela. «È una diaspora», dice senza mezzi termini la maestra Quagliarella. «Vedo molte mamme depresse, sfiduciate. Sole davanti alla responsabilità dei figli. Hanno lo sguardo triste».
La lontananza delle nuove residenze ha portato molti bambini a frequentare la scuola con discontinuità. «S’è aperta l’ennesima porta verso l’abbandono scolastico. Il Comune ha attivato dei pulmini, ma quasi a fine anno scolastico», fa notare la maestra. «Ho consigliato a molte mamme di cambiare scuola. Era il male minore». Non la pensa così Nardella. «Non vedo il rischio di una diaspora. Il Comitato Vele si riunisce con regolarità. Con l’avanzamento dei lavori, le persone sono tenute assieme da un obiettivo che appare finalmente realizzabile». Ma l’esodo ha avuto ripercussioni su tutto il quartiere. «Le Vele erano come una piccola città che è stata sconvolta», riflette Valentina. «I commercianti si sono offerti di portarmi la spesa fino ad Arzano, pur di non perdermi come cliente. Anche per loro il danno è enorme, rischiano di chiudere bottega».
Sono le due del pomeriggio quando un ragazzo si affaccia alla camera di Mariangela per consegnare le pizze. «Dopo il crollo, la solidarietà fu enorme», ricorda. «Arrivò di tutto: cibo, tv, frigoriferi. Ma qualcuno si mise a rivendere le cose che ci avevano regalato». Solidarietà e opportunismo: le due dimensioni della natura umana davanti alla tragedia. «Ora pure a Castel Volturno hanno fiutato l’emergenza», denuncia Valentina con sguardo accigliato. «Prima chiedevano 200 o 300 euro, adesso ne vogliono 500. Sanno che siamo disperati. E che non ce la facciamo più».
*Servizio realizzato nell'ambito della Scuola di reportage narrativo Alessandro Leogrande
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