Attualità
1 settembre, 2025Sin dall’antichità, il fatto di misurare e comprendere lo scorrere di minuti, ore e giorni ha rappresentato un bisogno costante per gli esseri umani. Fisici, filosofi e scrittori hanno segnato rivoluzioni scientifiche e culturali con le loro intuizioni. Dal calendario all’orologio, fino all’inganno della freccia
Il mistero del tempo ha rappresentato, sin dalle origini, uno degli assilli costanti di tutte le società umane. La metafora dello “scorrere” del tempo solca come un fiume carsico il sottosuolo della lingua in tutte le epoche e in tutte le culture: dal «panta rhei» eracliteo (in realtà, attribuito a Eraclito senza riscontro sui testi) a espressioni latine come «tempus elabitur», «fugit irremeabile tempus», oppure moderne come nell’espressione tedesca «Im Laufe der Zeit», “Nel corso del tempo”: che è anche il titolo di un bel film di Wim Wenders.
Anni fa, il grande scrittore messicano e premio Nobel per la Letteratura, Octavio Paz, ha espresso nella sua classica opera “Il labirinto della solitudine” un elogio del fluire, del flusso del tempo, in contrasto con la prigionia del calendario e dell’orologio: «Vi fu un tempo in cui il tempo non era successione e passaggio, ma fluire continuo di un presente fisso in cui erano contenuti tutti i tempi, il passato e il futuro. L’uomo, da questa eternità in cui tutti i tempi sono uno, è caduto nel tempo cronometrico ed è diventato prigioniero dell’orologio, del calendario e della successione. Poiché, appena il tempo si divide in ieri, oggi e domani, in ore, minuti e secondi, l’uomo cessa di essere uno col tempo, cessa di coincidere con il fluire della realtà. Quando dico “in questo istante”, l’istante è già passato».
Un’analoga ribellione contro il tempo meccanico dell’orologio la ritroviamo in un altro grande autore del Novecento: Ernst Jünger. Ma la critica radicale del tempo cronometrico punta in tal caso a valorizzare un diverso strumento di misurazione del tempo. Uno strumento antichissimo, noto alla civiltà babilonese ed egizia, adottato dalla Grecia antica sin dai tempi di Anassimandro, marchingegno della civiltà araba donato nell’807 d.C. da Haroun al-Rashid a Carlomagno, e che molti di noi oggi utilizzano per calibrare i tempi dei propri interventi nei convegni: la clessidra. In un prezioso libro pubblicato in Germania nel 1954 e apparso in edizione italiana nel 1994, con il titolo “Il libro dell’orologio a polvere”, Jünger presenta la clessidra come una modalità di vivere il tempo interamente diversa dalla «ruota dentata» dell’orologio meccanico: un tempo del «lasciar essere», anziché un tempo del «produrre».
Qualunque cosa si pensi delle parole di Paz e di Jünger, sta di fatto che – ben prima di cadere nella “prigionia” dell’orologio meccanico, impensabile (malgrado la presenza nello stesso mondo antico di alcuni orologi a ingranaggi) prima della rivoluzione scientifica del Settecento – le civiltà non avrebbero potuto sopravvivere senza una qualche forma di scansione del tempo: prima astrale, planetaria, poi tecnica. Gli uomini primitivi scandivano le stagioni e i mesi, prima delle ore e dei giorni. La più antica comunità della Mesopotamia aveva un calendario già nel terzo millennio a.C. Ma si trattava di strumenti imprecisi e spesso fuorvianti. Quando Giulio Cesare assunse il potere a Roma, dovette constatare che il calendario romano era avanti di tre mesi rispetto all’anno solare e, nell’anno 46 a.C., fu costretto ad attuare una radicale riforma del calendario, istituendo d’un colpo un ordinamento quasi identico a quello dei nostri tempi. In realtà, Cesare non aveva fatto altro che riferirsi al calendario civile egiziano, che constava di 365 giorni, ma apportandovi una decisiva modifica: un giorno in più ogni quattro anni (il nostro anno bisestile). Questo calendario “giuliano” sopravvisse all’Impero romano, funse da sistema astronomico di base durante il Medioevo e venne usato da Niccolò Copernico nelle sue tavole lunari e planetarie. La nostra settimana di sette giorni nasce, così, da un intreccio tra la settimana ebraica (con l’obbligo religioso di un giorno di riposo) e l’antica settimana planetaria (in cui Sole, Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere e Saturno regolavano alternativamente i giorni).
Uno strumento sorprendente è stato, oltre alla Meridiana, l’Astrolabio: risale alla Grecia antica, consentiva di calcolare il tempo tramite la posizione del Sole, della Luna e degli altri pianeti. Avendo il vantaggio di indicare sia la latitudine sia l’ora, i naviganti si servirono di questo strumento dopo la sua diffusione grazie alle ricerche astronomiche e al raffinatissimo artigianato del Medio Oriente. E, ancora in epoca medievale (siamo alla metà del Trecento), l’astronomo-filosofo e medico di Petrarca, Giovanni de’ Dondi, aveva costruito a Padova l’Astrarium: congegno astronomico e calcolatore analogico in grado di misurare il tempo sui movimenti dei cinque pianeti allora conosciuti, allo scopo di fornire un calendario perpetuo.
Ma vediamo, intanto, in rapida sintesi alcuni motivi classici sulla questione del tempo. Platone opera un intreccio tra Chronos, tempo cronologico, e Aión, inteso come durata vitale (nel senso del latino aevum), che poi (con l’incontro tra mondo greco e tradizione biblica e poi cristiana) viene a coincidere con l’eternità. Aristotele trasporta il problema del tempo sul terreno della fisica per dare al concetto di tempo un’accezione rigorosa, centrata sulla numerologia: un’aritmosofia astrale di matrice pitagorica trasformata in sapienza del numero (in greco: arithmós). Il Tempo-Chronosviene così definito nella “Fisica”: «Numero del movimento secondo il prima e il poi». Ma il numero presuppone il “numerante”, la psiche del soggetto che scandisce i passaggi del tempo. E tuttavia, nella “Metafisica”, Aristotele sembra de-soggettivizzare il tempo ponendolo a presupposto della successione cronologica: «Non è possibile che vi siano il prima e il dopo se non c’è il tempo».
Per assistere al vero salto di qualità sul mistero del tempo bisogna attendere gli anni tra il 397 e il 400 d.C. Agostino è il primo a porre la terribile domanda – che cos’è il tempo? – nei celeberrimi passi del Libro XI delle “Confessioni”: «Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più». Il tempo ha, dunque, un aspetto paradossale, dovuto alla sua familiare estraneità, al suo doppio carattere naturale e straniante: incredibilmente simile a quello che Sigmund Freud avrebbe riassunto sotto il concetto di «perturbante». E tuttavia, aggiunge Agostino, «io affermo tranquillamente di sapere che, se nulla passasse, non ci sarebbe un passato, e, se nulla avvenisse, non ci sarebbe un avvenire, e, se nulla esistesse, non ci sarebbe un presente. Ma allora in che senso esistono due di questi tempi, il passato e il futuro, se il passato non è più e il futuro non è ancora? Quanto al presente, se fosse sempre presente e non trascorresse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per far parte del tempo, in tanto esiste in quanto trascorre nel passato, in che senso diciamo che esiste anch’esso? Se appunto la sua sola ragion d’essere è che non esisterà, in fondo è vero, come noi affermiamo, che il tempo c’è solo in quanto tende a non essere».
Dal XX secolo ai giorni nostri abbiamo assistito in tutti gli ambiti del sapere a una straordinaria accelerazione degli studi intorno al problema del tempo. La spinta fondamentale è stata data, soprattutto, dal carattere fecondamente visionario della scienza fisica nel passaggio dalla teoria della relatività einsteiniana alla quantistica di Werner K. Heisenberg. Le rivoluzioni scientifiche non hanno rappresentato soltanto dei cambi di “paradigma”, all’insegna del Progresso. Hanno segnato piuttosto delle vere e proprie “esecuzioni capitali” delle precedenti immagini del mondo, dando luogo a vertiginose fratture che hanno inciso profondamente tanto sulle pratiche scientifiche quanto sulle forme di vita e sulla mentalità collettiva. Era accaduto così al tempo della rivoluzione scientifica di Galileo Galilei e Isaac Newton, con il disvelamento dell’inganno dei sensi che ci aveva indotti a credere a una Terra immobile situata al centro del sistema solare. E accade di nuovo oggi, in seguito alla messinscena della nuova immagine dell’universo dischiusa dalla relatività generale e dalla fisica dei quanti, con il disvelamento dell’inganno della freccia del tempo. Posta in gioco di assoluta radicalità che chiama in causa, con la revoca in questione della freccia del tempo, direttamente noi stessi: le nostre vite, i nostri corpi e il ruolo che occupiamo in questa nuova immagine dell’universo. Nella nuova imago mundi, il tempo e lo spazio, l’Ora e il Qui, hanno perduto la loro valenza universale per ridursi a meri “indicali”. E la perdita di assolutezza del Tempo e dello Spazio segna inevitabilmente lo scacco di ogni “presentismo”. Lo spazio non è un contenitore: è “curvato” dai corpi. E con esso si curva anche il tempo. La materia è energia, ma l’energia non è un continuum: è discontinua, composta di “quanti”, e varia come la luce. Le vibrazioni del campo gravitazionale non si diffondono nello spazio: sono lo spazio. La realtà non è un aggregato di enti, ma una dinamica di relazioni. Non è Sostanza, ma Evento.
E, tuttavia, la scommessa della gravità quantistica sembra escludere dal suo orizzonte il concetto di tempo. La freccia del tempo può darsi soltanto quando vi è trasmissione di calore. In breve, la spinta verso il futuro può darsi solo in situazioni di bassa entropia del passato. Ma ciò sembrerebbe accadere solo in un ritaglio dell’universo che ha dato luogo al tempo, agli organismi viventi e alle nostre esistenze. Detto ciò, qualunque cosa si pensi delle tesi dei teorici della gravità quantistica sull’irrealtà del tempo, resta il fatto che, nel ritaglio a bassa entropia del Pianeta in cui ci accade di vivere, ogni piega, ogni curva dei nostri corpi è, per dirla con Paul Valéry, «un parametro di tempo».
Quanto al ruolo del tempo nell’universo e nel sistema delle galassie, posso soltanto ripetere un motto ebraico posto in esergo a uno dei miei libri sul tempo. «Chiunque rifletta su quattro cose, meglio sarebbe per lui se non fosse venuto al mondo: ciò che è sopra, ciò che è sotto; ciò che è prima, ciò che è dopo».
SIMBOLO
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