Attualità
1 settembre, 2025Il cristianesimo muta la prospettiva sul futuro: non è il prolungamento del presente, ma la nascita di ciò che ancora non esiste. Non probabilità, ma imprevedibilità. Così la vita ha senso
Viviamo in un’epoca capace di misurare il tempo fino all’ultimo millesimo di secondo. Orologi atomici, grafici in tempo reale, notifiche che scandiscono ogni respiro: eppure, proprio mentre lo misuriamo meglio che mai, ne abbiamo perso il senso. Non solo nella forma evidente della fretta, ma in un vuoto più profondo: la scomparsa di un orizzonte. Inchiodati a un presente ossessivo, viviamo in un eterno “adesso” che divora il passato e soffoca il futuro.
La tecnologia – e ora l’Intelligenza artificiale – ha reso il tempo un flusso istantaneo e continuo. Ogni bisogno è anticipato, ogni previsione costruita su miliardi di dati. È un tempo che non conosce attesa, che non tollera lentezza, che non ha bisogno di desiderio. Ma il probabile non è il possibile: la macchina proietta in avanti ciò che già conosce, non crea lo scarto imprevisto che apre a ciò che nessuno aveva previsto. Se l’Ia calcola, la speranza sovverte. L’algoritmo può dirti cosa accadrà “con ogni probabilità”, ma non può generare l’evento che rompe lo schema, che apre a una storia nuova.
Per capire il presente occorre distinguere: i cambiamenti che viviamo non sono semplicemente “veloci”, sono “rapidi”. «Il secolo della motorizzazione ha imposto la velocità come un valore misurabile, i cui records segnano la storia del progresso delle macchine e degli uomini», nota Italo Calvino nelle sue “Lezioni americane”. La velocità è quella del treno che corre sui binari; la rapidità, invece, travolge, cambia i ritmi, plasma i modi di vivere e di pensare.
La Chiesa, nei suoi documenti, usa per lo più l’aggettivo rapido, infatti. Giovanni Paolo II, per esempio, parlava di «rapido sviluppo delle tecnologie». Rapido viene da “rapire”: afferrare, trascinare via. La luce elettrica ha “rapito” il ciclo naturale delle giornate; i social network la nostra capacità di relazione; l’Ia il nostro stesso modo di ragionare. La rapidità non solo accorcia i tempi: muta anche il loro significato. Ci priva degli spazi intermedi, comprime l’attesa, riduce il tempo per elaborare ciò che accade. In questo vortice, il rischio è che il tempo non sia più vissuto, ma solo consumato. E un tempo consumato non genera futuro: produce soltanto repliche dell’esistente.
Eppure, non è la prima volta che l’umanità riflette sulla natura del tempo. Il mondo classico lo disegnava come un cerchio: perfetto, rassicurante, ma chiuso. Viveva dell’eterno ritorno, del mito delle origini, del carpe diem come culto dell’hic et nunc. Il futuro era sospetto. Seneca definiva la speranza un dulce malum – dolce, ma ingannevole – perché sottraeva la sicurezza dell’oggi per proiettarla verso un orizzonte incerto. Il mondo classico aveva bisogno di stabilità, non di promesse: il tempo tornava sempre su sé stesso, come una stagione che non conosce novità.
Il cristianesimo ha spezzato questo cerchio. Ha introdotto nella storia un’apertura, la possibilità di un futuro autentico: non il prolungamento del presente, ma la nascita di ciò che ancora non esiste. La speranza diventa forza storica: non è calcolo di probabilità, ma dimora nel territorio del possibile, là dove il reale si piega per far entrare l’imprevedibile. È ciò che rende vivo il tempo: la possibilità che accada qualcosa di radicalmente nuovo, non derivato dai dati del passato.
Il passato viene dal futuro. Un incontro, un gesto, una parola possono ridare senso a esperienze archiviate. La memoria resta viva, se aperta a significati che ancora devono emergere. Nella logica della speranza, il passato non è mai una condanna definitiva: può essere reinterpretato, persino redento. Per questo la vera giovinezza non coincide con l’età anagrafica, ma con la capacità di mantenere aperta la propria storia. Questo è anche il senso vero e profondo della «conversione»: non un cambiamento di rotta, ma una reinterpretazione dell’arco temporale della propria vita sin dall’inizio.
La modernità, invece, ha rovesciato la geometria della speranza. Il tempo lineare è stato ridotto a risorsa da spremere e monetizzare. L’attesa è percepita come spreco, la memoria come peso, l’invecchiamento come colpa. La rapidità delle trasformazioni, se non è abitata da un orientamento, rischia di ridurre il tempo a pura gestione dell’immediato. La nostra cultura celebra l’efficienza, ma smarrisce il senso della direzione: un correre senza sapere verso cosa, come se il solo movimento bastasse a giustificare la meta.
Esiste un’altra prospettiva: il tempo biblico. Un tempo che non corre verso una scadenza, ma verso una promessa. La Bibbia racconta una storia in cui Dio agisce nella storia, non nei concetti astratti. Il tempo cristiano non cancella il passato: lo riapre e lo trasfigura. È un tempo aperto alla trasformazione, che sa integrare ciò che è stato e ciò che ancora deve venire. «Il tempo è superiore allo spazio», ripeteva in continuazione papa Francesco.
In questa prospettiva, il presente diventa tempo di cura e responsabilità, come un ospedale da campo che non si chiude nei protocolli, ma si china sulle ferite. Nelle radici del Giubileo, la liberazione iniziava con il suono del jobel, il corno d’ariete che squarciava il silenzio per annunciare restituzione e rinascita: debiti azzerati, terre restituite, dignità ridata. Era un’ecologia del tempo: restituirlo, non sottrarlo. Il Giubileo rompeva il ritmo ordinario per ricordare che il tempo non appartiene a chi lo misura, ma a chi lo vive.
Oggi, in un mondo che crede di sapere già dove sta andando, la speranza è la più radicale delle sorprese. Non si lascia rinchiudere in grafici né in cicli. Vive nell’istante, ma lo supera. È la forza che impedisce al tempo di diventare un archivio di repliche. È lo scarto irriducibile che nessun algoritmo potrà mai calcolare e che nessuna rapidità potrà esaurire.

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