Il pub di Hampstead Heath ha appena aperto, è un sabato mattina rigido. Famiglie benestanti di North London consumano il breakfast. "In Georgia c'erano venti gradi", esordisce Edwin Moses, sconsolato: a Londra ce ne saranno tre. Da ragazzo voleva laurearsi in fisica. Lo fece, portandosi a casa nel frattempo quattro record mondiali e due medaglie d'oro (a Montreal nel 1976 e a Los Angeles nel 1984) nei 400 metri a ostacoli. Moses è una leggenda: capace di coprire la distanza tra ostacoli in 13 passi anziché in 14, dominò la disciplina dal 1976 al 1988, infilando una serie impressionante di 122 vittorie consecutive. La sua invincibilità, durata nove anni, nove mesi e nove giorni, ne fa una delle massime personalità sportive di tutti i tempi. Oggi è un imponente cinquantaduenne che elargisce sorrisi in quantità controllata. Due lauree (la seconda in business), dopo aver ricoperto mille cariche onorifiche e dirigenziali nel Comitato olimpico, riformato il sistema della retribuzione degli atleti in Usa e promosso il primo programma di random testing contro il doping, è ora ambasciatore per lo sport e presidente della World Sports Academy della fondazione Laureus. Con la quale il 25 novembre a Milano lancerà una Polisportiva gratuita dedicata a ragazzi colpiti da disagio sociale ed emarginazione.
Come ha fatto a raggiungere tutti quei risultati?
"Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia di intellettuali. Mio nonno era un mezzadro ai tempi della depressione, aveva sei figli e tutti raggiunsero la laurea. Mia madre insegnava, mio padre nell'esercito: istruzione e disciplina in famiglia sono sempre state importanti e da noi figli ci si aspettava molto. Erano attivisti per l'istruzione".
Com'è cominciata la sua carriera?
"La corsa all'inizio era un hobby. Per coltivarlo presi una borsa di studio all'università. Il mio college non aveva una pista, dovevo andare in un altro. Nella corsa non c'era la pressione degli altri sport: se hai la volontà di lavorare duro puoi fare molti progressi ed è quello che ho fatto io. Ero troppo piccolo per il football americano, ero bravo a basket, ma non abbastanza da diventare professionista. Allora i giovani non cercavano a tutti i costi di diventare professionisti, come succede oggi. Il mio scopo era diventare un ingegnere, uno scienziato. Per questo andai all'università. La corsa era un extra".
Com'è cambiato lo scenario olimpico da allora?
"Ai miei tempi c'era la guerra fredda, tutto era politicizzato. Questo rendeva l'atletica leggera appassionante. Competevamo con la Germania dell'Est, con la Russia. Erano i tempi di Gerald Ford, Carter, Reagan, Thatcher. Il terrorismo c'era anche allora: l'Ira, le Brigate Rosse, ricordo bene il rapimento di Aldo Moro. Vedo la mia carriera in quella prospettiva storica. Il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca del 1980 cambiò molte cose".
Lei era contrario.
"La causa ufficiale era l'invasione russa dell'Afghanistan. Anche alle mie prime Olimpiadi, nel 1976 a Montreal, ci fu un boicottaggio di 25 paesi africani per protesta contro l'apartheid. Poi nel '79-80 ci fu il rapimento degli ostaggi all'ambasciata americana a Teheran, e Carter decise di non andare a Mosca per non immettere milioni di dollari nell'economia sovietica. Fummo tutti molto delusi. Persi la chance di difendere il mio oro di Montreal".
E oggi, pensa che le Olimpiadi di Pechino andrebbero boicottate?
"No, è inutile boicottare lo sport. Il primo passo sarebbe interrompere le transazioni economiche con la Cina".
Lei contribuì a liberalizzare le sponsorizzazioni nell'atletica. Una enorme iniezione di denaro nello sport, positiva. Ha anche creato scompensi?
"Le Olimpiadi del 1984 furono le prime a essere organizzate con criteri imprenditoriali e commerciali. Cominciarono le grandi sponsorizzazioni di Coca-Cola, Ibm, che sostenevano il Comitato olimpico di cui facevo parte. Questo cambiò la faccia dello sport in America; presto seguirono il football, il calcio, il basket. La proliferazione di diritti sul merchandising e la prospettiva di enorme arricchimento ha cambiato l'atteggiamento degli atleti e cancellato i valori fondanti dello sport, il comportamento da gentiluomo che ne era la premessa. E la coscienza di far parte di una tradizione. Quando correvo io conoscevo i miei predecessori e la loro tecnica, li rispettavo: oggi gli atleti pensano solo in termini di guadagno. Alcuni atleti che corrono i 400 a ostacoli nemmeno sanno chi sono io".
Eravate consapevoli del valore politico di quello che facevate?
"C'erano nazionalismo e competizione, ma anche passione e sostanza. Eravamo noi americani contro i tedeschi dell'Est e i russi. Se guardi ai 5 mila metri oggi, in pista ci sono 15 persone tutte con la stessa uniforme, sebbene di diverse nazionalità. Un altro problema adesso è l'abuso di sostanze dopanti, come dimostra il caso di Marion Jones".
Lei da vent'anni combatte il doping: non crede che la ricerca della vittoria in sé metta potenzialmente tutti a rischio di farne uso?
"Dipende dalla moralità dell'individuo. C'è sempre qualcuno disposto a tutto".
Ma il fenomeno è endemico. Come arginarlo?
"Quando ero membro del Cio ci occupavamo del problema con gli atleti russi e creammo il random testing, i test antidoping a sorpresa. Le autorità sovietiche collaborarono. La responsabilità è di chi dirige le organizzazioni: se non fanno abbastanza è impossibile che le cose migliorino dal basso".
Gli atleti erano risentiti con lei?
"A volte. Contestavano i risultati scientifici. L'atleta che si dopa non riconosce di avere un problema, come il tossicodipendente".
Le piace Jay-Z? È un esempio o un pericolo per la comunità afroamericana?
"Lo ascolto ogni tanto alla radio. Questi artisti sono attaccati perché diffondono disvalori come la violenza; loro dicono che descrivono il mondo in cui vivono, ma dovrebbero capire l'enorme influenza che hanno sui giovani. I rapper non hanno moralità e sono molto egoisti. Non insegnano a uscire dal ghetto. Con la fondazione Laureus operiamo su problemi concreti: ragazzi delle gang, bambini soldato, orfani e vittime di mine anti-uomo. Usiamo lo sport come strumento per cambiare la vita di questi ragazzi".
Lei ha vinto 122 gare di fila. È stato difficile accettare la prima sconfitta?
"La sconfitta è una possibilità sempre presente. Ogni volta ricominci da zero".
I più grandi dello sport del XX e XXI secolo?
"Per il XX Muhammad Ali: è quello che ha ottenuto di più e ha lasciato un segno nella vita di molti. Per lui contavano i principi. E Tommie Smith. Per il XXI ancora nessuno".