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Era garibaldino, patriota e anche visionario. Si vede. Solo l'insieme di questi tre ingredienti poteva produrre nel 1915 una carica di Bersaglieri con piume al vento e quadricipiti all'assalto degna del cinemascope. Le truppe sabaude alla conquista di Roma più che un esercito dipinto con aura ottocentesca sembrano l'armata nordista dietro al generale Custer in un film hollywoodiano. Ed è singolare coincidenza che alle origini del cinema italiano ci sia proprio una "Presa di Roma" di pochi minuti, che il pioniere Filoteo Alberini riuscì a realizzare nel 1895 con una macchina di sua invenzione: il kinetografo. Ma le immagini in reale movimento di Alberini non sono neanche comparabili con la forza dinamica di questo quadro. Basti pensare all'impostazione scelta che evita di rappresentare la tradizionale scena con i due eserciti schierati pronti alla battaglia oppure la mischia vista dall'alto con scontro diretto tra truppe. Cammarano artista-soldato sceglie invece di monumentalizzare la carica dei bersaglieri con una visione frontale, attraverso una tecnica quasi fotografica e degna di un obiettivo grandangolare spinto ai limiti del fish eye per abbracciare un campo di 180 gradi. Ed ecco gli impetuosi giovanotti che solcano il terreno a passi pesanti, per tramutarsi in attori, protagonisti della storia italiana. Tanto da essere pubblicati in tutti i sussidiari dei piccoli studenti unificati dai Savoia e dal motto di Nathan "Meno chiese. Più scuole". Poi, con i Patti Lateranensi, Cammarano e la sua eroica breccia vengono espulsi dai testi fascisti. Sic transit gloria mundi.
Scuderie del Quirinale, Roma. Fino al 16 gennaio 2011.
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Secondo piano a destra: il ritratto è nell'ultima sala. Non ci sono indicazioni, bisogna chiedere ai custodi dove abita la Fornarina. Altrove (tipo Londra o Parigi) avremmo trovato un red carpet e lei, la Margherita Luti -nome in codice Fornarina- sarebbe stata immortalata in tutto il suo splendore e in tutte le dimensioni, dal gadget al manifesto. Star e icona della finalmente riconquistata Galleria Nazionale d'Arte Antica nel Palazzo Barberini per oltre mezzo secolo occupato manu militari dal circolo ufficiali. Invece eccola nell'ultima sala, che guarda verso la porta quasi a sperare che qualcuno la riconosca. E a dividersi lo spazio con una "Minerva che rimprovera Cupido" di Giulio Romano e la "Deposizione di Cristo dalla croce" di Marteen Van Heemskerck. Forse meritava di più la bella figlia del panettiere amata da Raffaello, una ragazza che è capolavoro di malizia, che finge di coprirsi il seno con un velo trasparente mentre gli occhi vispi "son tutti una promessa" si sarebbe detto ai tempi. Lui (Raffaello) del resto non nasconde la natura dei loro rapporti ai suoi contemporanei che sanno benissimo - senza bisogno dell'audio guida a differenza di noi - che il cespuglio di mirto è caro a Venere e il ramo di cotogno alle spalle è simbolo dell'amor mondano. Poi, tanto per insistere sul concetto, il maestro le dipinge sul braccio un nastro con inciso Raphael Urbinas che è insieme firma, pegno d'amore e segno di possesso della donna. I gossip cinquecenteschi narrano di un Raffaello che all'epoca (il dipinto è del 1518-1519) è un maturo signore trentacinquenne, così pazzo d'amore e gelosia da non darsi pace e non riuscire nemmeno a lavorare, se lei gli stava lontana. Del resto quel bel viso, quel naso leggermente aquilino e quel corpo morbido tornano continuamente nella sua opera tarda: dalla "Velata" (1516) ai volti di molte Sante Vergini (Madonna della seggiola, Madonna di Foligno). In tempi recenti alcuni studiosi azzardano l'ipotesi che da ragazza accorta Margherita sia riuscita a farsi sposare da Raffaello, sia pure di nascosto. Vedi l'anello sulla mano sinistra, che finora sembrava fosse pure elemento formale per esaltare le dita sottili. Balle: la forma non c'entra, la bella figlia del fornaio puntava alla sostanza. Quella è una fede.
Palazzo Barberini, Roma. Collezione permanente
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L'altro Rinascimento ovvero quello del Nord e di Lucas Cranach, pittore di Sassonia e di Federico il Saggio, il manierista che fondò la grammatica dell'iconografia protestante e dei temi cari alla Riforma a colpi di citazioni e nudi biblici. Cranach che fissò, fin da allora, i canoni della bellezza germanica bionda e alta, dai corpi allungati, le posture raffinate fino a diventare innaturali, la mise en scene che nasce più dalla danza che dall'eros. Eccola la Venere del Nord, dall'ariano corpo esile e dal ventre prominente, figlia delle cattedrali gotiche e delle finestre a ogiva. Allungata come lo sono tutti i simboli della bellezza a quelle latitudini. Siamo diversi: al di qua e al di là delle Alpi, e niente può dimostrarlo più di un corpo femminile ideale come questa Venere con cappellino tanto ascetica quanto mondana, dipinta nel 1531. Basta confrontarla con quel fiore di ragazza bruna e in carne: la più o meno coetanea Fornarina di Raffaello. E ci voleva un protestante per osare un nudo integrale così esplicito, sia pure su un corpo di spettrale e anemica eleganza. Un nudo che non teme se stesso, perché è un simbolo di tutto un popolo puritano e non l'amante in carne ed ossa di un pittore del papa di Roma.
Galleria Borghese, Roma. Fino al 13 febbraio
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Sembra una scena di teatro. Una giovane attrice sul palco. È vestita di bianco, in piedi in primo piano. Alle spalle, un paesaggio serale illuminato dal crepuscolo. Sullo sfondo, il verde dei boschi e il blu di uno specchio d'acqua. L' universo è fermo, chiuso nel segno deciso che incastona uomini e cose facendone un tutt'uno con lo sfondo. È una delle incarnazioni dello "spirito del Nord": dilatazione infinita, solitudine e attesa. Quadro di Edvard Munch del 1893 sintesi di tutti i temi della pittura scandinava che con la loro sospensione metafisica entrano nel grande movimento simbolista internazionale della fine del XIX secolo dai francesi Nabis, ai Secessionisti d'Austria e Germania fino al profondo Nord. Tutti contagiati di identica malinconia, mancanza di prospettiva (anche pittorica) e un forte segno nero intorno alle figure, perse (come qui) in un'atmosfera di silenzioso mistero. Nulla è vero, né verosimile. Il titolo rimanda a una voce forse interiore o forse alla voce fuori campo di un narratore lontano dal palcoscenico. La donna quasi senza volto, schiacciata contro il fondale e muta guarda gli spettatori che guardano il quadro. Munch ha dato corpo e colore alle anime del Nord. Un secolo dopo un altro uomo del Nord scriverà :"Giro negli appartamenti nella penombra, passeggio per le vie silenziose di Uppsala, mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l'enorme betulla a due tronchi, e abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio una piccola visita alla realtà". Quell'uomo si chiama Ingmar Bergman.
Villa Manin, Udine. Fino al 6 marzo
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Certo non sembra un tipico volto dell'Ottocento quello di questa giovane donna grintosa, con lo sguardo dritto in macchina, le gambe accavallate e una pila di libri gialla come l'ombrello con rouches (unico vero vezzo fin de siècle). Lei legge romanzi di Prevost o Bourget, tutti editi da Flammarion come appunto si evince dalla tipica rilegatura gialla. "Oh, se il Corcos fosse stato meno a Parigi!", scrisse perfido Ugo Ojetti e non solo riferendosi all'editore. Ciò che turbò gli animi alla Festa dell'Arte e dei Fiori di Firenze del 1896, dove il quadro fu visto per la prima volta, era quell'immagine femminile che aveva già scavalcato il secolo. E pure di parecchi decenni. Donne sole su una panchina che si mettono in posa come per una foto, nelle strade di Firenze non s'erano mai viste fino allora. "Forse invece a Parigi già ne girano di queste pervertite!", devono aver pensato gli astanti. E invece la ragazza era assolutamente italiana, si chiamava Elena Vecchi, era figlia di Jack la Bolina, pseudonimo da fumetti di papà Augusto, scrittore di racconti marinari. Probabilmente, come da protocollo, fu anche un grande amore del pittore che la usò spesso come modella di donne belle e toste. Ma soprattutto con quel misto di arroganza e desiderio, con quei capelli arruffati e gli occhi ombrati dalle occhiaie, questa " Lettrice" è una perfetta sintesi fra l'ideale erotico dannunziano e la donna moderna che avrebbe rivoluzionato il XX secolo (finché non arrivarono le veline).
Palazzo Zabarella, Padova. Fino al 27 febbraio
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Count down. Mancano 52 anni alla rivoluzione francese ma Jean-Siméon Chardin visto dai contemporanei come pittore-artigiano e dai posteri come il precursore dell'Impressionismo (Cézanne in testa) i borghesi futuri li aveva già visti. E immortalati. Solidi, decisi, concreti. Gente sicura dalla schiena dritta, classe media orgogliosa di sé. Narrano le biografie di uno Chardin che comincia la carriera col dipingere le insegne di professionisti borghesi (la prima fu per un chirurgo) per poi passare alla natura morta e a quella di genere. Ma aveva ragione Diderot quando scrisse che quella natura non era morta "ma è carne stessa del pesce" e quegli oggetti "sostanza stessa degli oggetti". Si dice che abbia imparato dalla lezione fiamminga, ma questa bambina (dipinta nel 1737) non è sorpresa in un attimo di vita casalinga, non è illuminata da un raggio di sole, non sta vicino a una finestra. Lei non ha via di fuga, non ha sfondi, non ha fonti di luce. Vive in un assoluto di cui è lei stessa la luce. Non è personaggio, ma protagonista del quadro. E non gioca, ma afferma il suo diritto a giocare. Per ora solo quello, ma i suoi figlioli nell'89...
Palazzo dei Diamanti, Ferrara. Dal 17 ottobre al 30 gennaio
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Il motivo per cui Bronzino aveva letteralmente sedotto i suoi contemporanei furono quei ritratti "naturalissimi" e " finiti" come diceva Vasari. Ovvero, somiglianti all'inverosimile ma anche ossessivamente meticolosi nella precisione e nei dettagli. Tanto per capire sarà bene concentrarsi qui, non tanto sulla dama ma sul cagnolino, che sembra vero. È uno spaniel, razza che andava molto di moda all'epoca. Infatti possiede uno Spaniel Clarice Strozzi ritratta da Tiziano quando aveva solo due anni. E anche il giovane Vendramin, in un gruppo di famiglia della National Gallery di Londra, mostra con gioia il miglior amichetto dell'uomo. Tiziano poi mette uno spaniel persino tra i drappi della dormiente Venere di Urbino (prova che non solo ne possedeva uno, ma lo faceva anche salire sul letto). È vero che il cane è simbolo di fedeltà d'animo, qui raddoppiata da quella religiosa (vedi rosario), ma che simboleggerà mai la razza spaniel nella pittura del Cinquecento? E mentre gli iconologi si interrogano, val la pena di soffermarsi sul colore del vestito, sul cesello delle maniglie della poltrona e soprattutto su postura e sguardo di questa signora che interpreta una bellezza resa irraggiungibile dal ruolo, dal potere, dallo status.
Palazzo Strozzi, Firenze. Fino al 23 gennaio
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Basta confrontare da vicino le due immagini, per capire che quella ragazzina con la maglietta a righe non è la nipote dei due signori sullo sfondo, ma la pro-pronipote della Dama del Bronzino. Identiche nello spirito, nei tratti somatici e nella consapevolezza di essere due creature dell'upper class e dunque congelate nella loro privilegiata perfezione. Del resto Tina Barney è una Bronzina dei nostri giorni. Attenta ai dettagli fino alla maniacalità perché molto più interessata alla cruda realtà del teatro sociale che alla giostra romantica delle emozioni. Per questo motivo, il dialogo fra i secoli diventa stretto in questa sfida che il Centro la Strozzina dalle cantine del nobile Palazzo ha lanciato ai piani superiori. Là i damascati nobili della Corte de' Medici, qua i potenti della terra del XXI secolo. Ci sono Elisabetta II immortalata dalla Leibovitz con lampi caravaggeschi sulle regali vesti e sugli ermellini. C'è il Fidel Castro in bianco e nero di Sugimoto, c'è la Thatcher vista da Helmuth Newton o lo svizzero board dei potenti signori della finanza incapaci persino di sorridere all'obiettivo di Clegg & Guttman. Passa il tempo, ma la grammatica non cambia. I sovrani non ridono e non si piegano. Schiena dritta e sguardo in macchina: il volto del potere è sempre lo stesso.
La Strozzina, Firenze. Fino al 23 gennaio
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Le nozze in questione sarebbero quelle di Santa Caterina, ma non sarà questa la storia che ci rimane nel cuore. Piuttosto lo sguardo affonda nella parete grigia densa come il cemento e degna della futura Arte Povera che sostituisce il solito paesaggio umido del dipingere veneto. Ma Lotto, che pure è veneto, gioca tutto in primo piano, sulla coreografia dei personaggi che si piegano come in un'onda a disegnare morbidezza e curva dei corpi. Una spirale di energia che come un gorgo fa il vuoto al centro. Così non possiamo non restituire lo sguardo a quella Madonna che ci sta fissando o non chiederci chi sarà mai quel committente con cappello a barchetta così ossequioso dietro la sedia della Vergine. Perché, come scrisse Giulio Carlo Argan, la rivoluzione del Lotto sta nel "fissare il personaggio non come obiettivamente è, ma come è nel momento e nell'atto in cui si qualifica, si rivolge a un altro, si prepara a uno schietto rapporto umano. Non dice: ammirami, io sono il re, il papa, il doge, sono al centro del mondo. Ma dice: così sono fatto dentro, questi sono i motivi della mia malinconia o della mia fede, o della mia simpatia verso gli altri". Ed è già commedia umana.
Chiostro del Bramante, Roma. Fino al 30 gennaio
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La mostra di Giovanfrancesco Rustici, egregio scultore cinquecentesco allievo del Verrocchio, amico di Andrea del Sarto, collaboratore di Leonardo e padre di Cellini, vale di sicuro la visita. Ma il San Giovanni di Leonardo (che viaggia per l'Italia grazie al partenariato tra Eni e Louvre ) per chi non l'avesse già visto a Milano e Roma, da solo vale di sicuro un viaggio. Primo, per salutare un grande ritorno, poiché quest'opera conservata al Louvre manca da Firenze dal 1500. Però va detto che il Louvre ha saputo valorizzarla molto bene e con uno di quei colpi di genio e di marketing l'ha battezzata "Sorella gemella della Gioconda" per la magistrale resa della luce e dell'ombra attraverso la tecnica dello sfumato. Che in effetti qui, come nella "Monna Lisa" e in tutta la maturità di Leonardo, è un miracolo di tecnica pittorica dove le velature, i passaggi di toni, gli strati di colore uno sull'altro sono talmente controllati e perfetti da non rivelare neanche le tracce del pennello. Non solo. Questi due strani esseri si somigliano parecchio e si direbbero parenti anche nel sorriso: composto e misterioso in lei; ambiguo e invitante in lui. Perfettamente in bilico tra satiro e santo, tra l'erotico e l'ascetico, tra il pagano e il cristiano, intorno a questo San Giovanni fioriscono ipotesi e illazioni. Alcuni studiosi sostengono che fosse il ritratto del Salaino, allievo prediletto di Leonardo, e che il maestro gli lasciò in eredità il quadro di cui lui a sua volta fece copia (oggi all'Ambrosiana). Altri invece vedono in questa impellicciata creatura un Battista angelico che indica con quello strano gesto il cielo e la salvezza. Naturalmente ognuno è libero di pensarla come vuole. Ma di certo si resta incantati di fronte alla magica ambiguità di Leonardo e alla sua grandezza nel fermarsi al punto giusto. Bastava fessurare un pochino di più gli occhi e sollevare gli angoli della bocca che al posto dell'angelo avremmo visto un demonio.
Museo del Bargello, Firenze. Fino al 10 gennaio
ha collaborato Giulia Cerino