In esclusiva, un brano del nuovo libro Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? in cui lo scrittore americano mescola il racconto introspettivo all'inchiesta sul campo, narrando le atrocità degli allevamenti intensivi e motivando le ragioni di chi non mangia carne

Il cibo della vita

Da piccolo passavo spesso il fine settimana a casa di mia nonna. Quando arrivavo, il venerdì sera, lei mi sollevava stringendomi in uno dei suoi abbracci soffocanti. E quando me ne andavo, la domenica pomeriggio, mi alzava di nuovo per aria. Solo molti anni dopo ho capito che mi stava pesando. Mia nonna è sopravvissuta alla guerra a piedi nudi, frugando tra ciò che per gli altri era immangiabile: patate guaste, pezzetti di carne scartati e quel che restava attaccato agli ossi e ai noccioli della frutta. Quindi non le importava se coloravo fuori dai margini, purché tagliassi i buoni-sconto lungo la linea tratteggiata. E ai buffet degli alberghi a colazione, mentre noi impilavamo cose su cose come erigessimo vitelli d'oro, lei preparava panini su panini e li avvolgeva nei tovaglioli, nascondendoseli nella borsetta per il pranzo. È stata mia nonna a insegnarmi che è sufficiente una bustina di tè qualunque sia il numero di tazze che devi servire e che della mela si mangia tutto.

Il punto non erano i soldi. (Molti dei buoni-sconto che ritagliavo erano per cibi che non avrebbe mai comprato.) Il punto non era la salute (Mi implorava di bere Coca-Cola). Mia nonna non apparecchiava mai un posto per sé durante i pranzi di famiglia. Anche quando non restava più niente da fare - piatti di minestra da rabboccare, pentole da rimestare o forni da controllare - lei rimaneva in cucina, come una sentinella (o una prigioniera) all'erta in cima alla torre. Per quanto ne sapevo io, il sostentamento derivante dal cibo che preparava non richiedeva che lo mangiasse. Nelle foreste europee mia nonna aveva mangiato per sopravvivere fino alla successiva opportunità di mangiare per sopravvivere. In America, cinquant'anni dopo, noi mangiavamo ciò che volevamo. Le nostre dispense erano piene di cibo comprato d'impulso, di leccornie costose, di roba che non ci serviva. E passata la data di scadenza, buttavamo via le cose senza annusarle. Mangiare era un atto spensierato. Mia nonna aveva reso possibile quella vita per noi. Ma lei, di suo, non riusciva a scuotersi di dosso la disperazione.

Crescendo, io e mio fratello pensavamo che la nonna fosse la cuoca migliore che ci fosse. Lo esclamavamo alla lettera quando il cibo arrivava in tavola, lo ripetevamo dopo il primo boccone e poi di nuovo alla fine del pasto: "Sei la cuoca migliore che ci sia!". Eppure eravamo bambini abbastanza smaliziati per sapere che La Cuoca Migliore Che Ci Sia doveva conoscere più di una ricetta (pollo con le carote) e che quasi tutte le Ricette Migliori contenevano più di due ingredienti. E perché non le dicevamo nulla quando ci raccontava che il cibo scuro è intrinsecamente più sano del cibo chiaro o che la maggior parte delle sostanze nutritive si trova nella pelle e nella crosta? (In quei fine settimana i sandwich venivano preparati con il 'sedere' dei panini di segale.) Lei ci insegnava che gli animali più grandi di noi ci facevano molto bene, gli animali più piccoli di noi ci facevano bene, i pesci (che non sono animali) erano accettabili, poi veniva il tonno (che non è un pesce), quindi la verdura, la frutta, le torte, i biscotti e le bibite. Non esistono cibi che fanno male. I grassi sono sani: tutti i grassi, sempre, in qualsiasi quantità. Gli zuccheri sono sanissimi. Più un bambino è grasso, più è sano, soprattutto se è un maschio. Il pranzo non è un pasto, sono tre pasti, da consumarsi alle undici, a mezzogiorno e mezzo e alle tre. Stiamo sempre morendo di fame.

Forse il suo pollo con le carote era davvero il piatto più squisito che avessimo mai mangiato. Ma questo non aveva molto a che fare con il modo in cui lo preparava, e neppure con il sapore. Il cibo della nonna era squisito perché eravamo convinti che fosse così. Credevamo nella cucina della nonna con più fervore di quanto credessimo in Dio. La sua abilità culinaria era una delle storie fondanti della nostra famiglia, così come la scaltrezza del nonno che non avevo mai conosciuto o l'unico litigio nella vita matrimoniale dei miei genitori. Ci aggrappavamo a quelle storie e ne dipendevamo, perché ci definivano. Noi eravamo la famiglia che sceglieva saggiamente le proprie battaglie, usava il cervello per tirarsi fuori dai pasticci e amava il cibo della matriarca.

C'era una volta una persona dalla vita così perfetta che non esistevano storie su di lei da raccontare. Su mia nonna si potrebbero raccontare più storie che su chiunque altro io abbia mai conosciuto - ha vissuto l'infanzia in un'altra lingua, è sopravvissuta sul filo del rasoio, ha perso tutto, è emigrata e ha perso molto altro ancora, la sua assimilazione è stata un misto di trionfo e tragedia - e un giorno proverò a raccontarle ai miei figli, anche se tra di noi non ce le raccontavamo mai. Né la chiamavamo mai con qualunque altro titolo ovvio e meritato. La chiamavamo La Cuoca Migliore Che Ci Sia. Forse le altre storie erano troppo difficili da raccontare. O forse lei si era scelta quella storia, perché voleva essere identificata con la sua capacità di provvedere agli altri e non con la sua sopravvivenza. O forse la sua sopravvivenza è inscritta nella sua capacità di provvedere agli altri: la storia del suo rapporto con il cibo racchiude tutte le altre storie che si possono raccontare di lei. Il cibo, per lei, non è cibo. È terrore, dignità, gratitudine, vendetta, gioia, umiliazione, religione, storia e, ovviamente, amore. Come se i frutti che ci offriva continuamente fossero colti dai rami distrutti del nostro albero genealogico. (...)

Quando, alla fine del secondo anno dell'Università, decisi di laurearmi in filosofia e per la prima volta mi accinsi pretenziosamente a pensare sul serio, tornai a essere vegetariano. Quel genere di oblio volontario che il consumo di carne richiedeva mi sembrava troppo assurdo per la vita intellettuale che cercavo di costruirmi. Ritenevo che la vita potesse e dovesse necessariamente conformarsi all'impronta della ragione. Immagina quanto questo mi rendesse fastidioso. Quando mi laureai, mangiai invece carne - ogni genere di carne - per circa due anni. Perché? Perché era buonissima. E perché nella formazione delle nostre abitudini più della ragione contano le storie che raccontiamo a noi stessi e che ci raccontiamo a vicenda. E io mi raccontavo una storia indulgente su me stesso. Poi mi organizzarono un appuntamento al buio con la donna che sarebbe diventata mia moglie. E poche settimane dopo ci ritrovammo a parlare di due argomenti imprevisti: matrimonio e vegetarianismo. La sua storia con la carne era straordinariamente simile alla mia: c'erano cose in cui credeva distesa a letto di notte e c'erano le scelte che faceva seduta a colazione la mattina dopo. C'era il timore (se pure occasionale e di breve durata) di prendere parte a qualcosa di profondamente sbagliato, e c'era l'accettazione della sconcertante complessità della faccenda così come della giustificabile fallibilità dell'essere umano. Come me, aveva intuizioni molto forti, ma evidentemente non abbastanza.

Le persone si sposano per molte ragioni. Nel nostro caso, uno dei motivi che ci spinse al grande passo fu la prospettiva di segnare in maniera esplicita un nuovo inizio. Il simbolismo del rituale ebraico, di cui l'esempio più noto è la rottura del bicchiere al termine della cerimonia nuziale, promuove con forza l'idea di una netta demarcazione tra il prima e il dopo. Prima le cose erano com'erano, ma adesso saranno diverse. Saranno migliori. Noi saremo migliori. Sembra perfetto, ma in che senso saremo migliori? Potevo immaginare infiniti modi per migliorarmi (potrei imparare una lingua straniera, essere più paziente, lavorare di più), ma avevo già fatto troppi buoni propositi del genere per fidarmi. Potevo immaginare infiniti modi per migliorare 'noi ', ma gli aspetti importanti su cui si può trovare un accordo e che è possibile modificare in una relazione sono pochi. In realtà, anche quando ci sembra di poter fare così tanto, non possiamo fare molto.

Mangiare gli animali, un cruccio che entrambi avevamo avuto e che entrambi avevamo dimenticato, sembrava un buon punto di partenza. È una questione su cui convergono molte cose e da cui potrebbero scaturirne molte altre. Nella stessa settimana, ci fidanzammo e diventammo vegetariani. Ovviamente il nostro non fu un matrimonio vegetariano, perché ci convincemmo che era più che giusto offrire proteine animali ai nostri ospiti, alcuni dei quali arrivavano da molto lontano per condividere la nostra felicità. (Non fa una grinza, vero?) E mangiammo pesce durante la luna di miele, ma eravamo in Giappone, e se sei in Giappone... E poi, nella nostra nuova casa, capitava che mangiassimo un hamburger o una minestra di pollo o un po' di salmone affumicato o un trancio di tonno. Ma solo ogni tanto. E solo se ci andava.

Questo è quanto, pensavo. E pensavo che andasse bene così. Pensavo che ci saremmo attenuti a una dieta di coscienziosa incoerenza. Perché il cibo avrebbe dovuto essere diverso da qualunque altro ambito etico della nostra vita? Eravamo persone sincere che ogni tanto dicevano una bugia, amici attenti che ogni tanto mancavano di tatto. Eravamo vegetariani che ogni tanto mangiavano carne. E non ero neppure del tutto sicuro che le mie intuizioni fossero solo vestigia sentimentali dell'infanzia, ricordi lontani che, se avessi scandagliato a fondo, non mi avrebbero lasciato indifferente. Non sapevo cos'erano gli animali, e neppure in via approssimativa come venissero allevati e uccisi. Tutto questo mi metteva a disagio, il che però non vuol dire che dovesse valere anche per gli altri, e neppure per me. E non avevo alcuna fretta o bisogno di risolvere la questione. Ma poi decidemmo di avere un figlio, e quella fu un'altra storia, che rese necessaria un'altra storia.

Circa mezz'ora dopo la nascita di mio figlio, andai in sala d'attesa per dare la buona notizia alla famiglia riunita. " Hai detto lui! Quindi è un maschio?".

"Come si chiama?".
"A chi assomiglia?".
" Raccontaci tutto!".

Risposi alle loro domande il più in fretta possibile, poi mi misi in un angolo e accesi il cellulare. " Nonna", dissi, "è nato".

Il suo unico telefono è in cucina. Rispose al primo squillo, il che significa che era lì seduta ad aspettare la telefonata. Era appena passata la mezzanotte. Stava ritagliando buoni-sconto? Preparando pollo e carote da congelare e da offrire a qualcuno in futuro? Non l'avevo mai vista o sentita piangere. La sua voce si ruppe quando chiese: "Quanto pesa?".

Qualche giorno dopo essere rientrati a casa dall'ospedale, scrissi a un amico, includendo qualche foto di mio figlio e le prime impressioni sulla paternità. Lui rispose, semplicemente: " Tutto è di nuovo possibile". Era una frase perfetta, perché era esattamente così che mi sentivo. Potevamo raccontare daccapo le nostre storie e renderle migliori, più rappresentative o più ambiziose. O potevamo scegliere di raccontare storie diverse. Il mondo stesso aveva un'altra chance.

@ 2009 by Jonathan Safran Foer @ 2010 Ugo Guanda Editore S.p.A

traduzione di Irene Abigail Piccinini

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