Sul municipio rosso di Berlino la bandiera arcobaleno sventola a mezz'asta. Il sindaco Klaus Wowereit, l'omosessuale dichiarato che governa la capitale gay d'Europa, teme che la "Neue Zeit" possa fallire. È la guerra dei diversi che sembra perduta. È diventata la guerra degli uguali. È vinta sulla carta bollata, ma è persa nell'utopia letteraria della ricerca di un mondo migliore.
La rivolta contro il sistema, l'ambivalenza stessa come chiave di accesso all'universalità sembrano aver esaurito il loro potenziale rivoluzionario. L'orizzonte è diventato l'omologazione, la promessa di un matrimonio legale o dell'adozione di un figlio. Un linguaggio che non impone, ma propone: "Gay is beautiful", scandiva lo scrittore Edmund White con l'amico Lou nel 1969 a New York mentre gli scontri con la polizia allo Stonewall Inn segnavano la fine del ghetto culturale dei diversi. È la festa del 28 giugno, che si celebra ancora. Era il giorno in cui suoni e silenzi, colori e buio, volgarità e dolcezza di un bacio fra due uomini conquistarono il resto dell'umanità: per finire fra le pagine dei romanzi, sui giornali e sui megaschermi delle sale cinematografiche. Ambigui come in "Morte a Venezia". Sfrontati come in "Festa per il compleanno del caro amico Harold". Oppure genuini come li descriveva Pier Paolo Pasolini, che notte dopo notte denunciava lo svanire della dolce vita omosex all'italiana soppiantata dalla nevrosi collettiva. Era l'utopia esistenziale, il no all'assimilazione. Se poi i diritti civili sono arrivati, è da questo linguaggio che hanno attinto la forza per essere ascoltati. Una forza che, purtroppo, s'è smorzata nel tempo. E che oggi non esiste più. Soppiantata dalla cultura post-gay, l'illusione dell'uguaglianza spesso confusa con l'indifferenza.
Il romanziere americano David Leavitt l'aveva profetizzata negli anni Ottanta, tracciandone via via una mappa nei suoi libri. Da "Ballo di famiglia" a "La lingua perduta delle gru" al "Voltapagine", l'omosessualità è un'esperienza sempre più quotidiana, fino a diventare superflua. Talmente compromessa con il modello dominante da venirne inghiottita, come ne "Il corpo di Jonah Boyd" (Mondadori), dove dei gay non resta traccia.
In Irlanda invece è Colm Toibin a cambiare il Dna dell'utopia omosessuale. Sotto la luce notturna del faro di Blackwater (ne "Il faro di Blackwater", Fazi), tre donne ruotano attorno a un protagonista gay, Declan, malato di Aids. Ultimo atto della rivoluzione copernicana che porta al centro del nuovo linguaggio ciò che per decenni era orbita lontana e misteriosa. Così l'obiettivo non è più cambiare il sistema, bensì farne parte. Le rivendicazioni non vengono avanzate nel nome di un ideale culturale, ma sociale. Una vittoria che odora di fallimento. Per tornare all'esempio tedesco.
Certo ai gay italiani, che guardano alla Germania come modello, sembra folle il grido di chi non ci sta più. Ma alla porta di Brandeburgo, mentre coppiette di ragazzini a vita bassa passeggiano mano nella mano progettando le nozze coi genitori, c'è qualcosa di quell'aria berlinese che preoccupa il borgomastro: "È tutto cambiato. Sta scomparendo la memoria storica delle nostre lotte per la libertà (non solo) sessuale. Erano lotte per la diversità, senza le quali io non starei seduto dove sono", dice a "L'espresso". Nell'ultimo decennio s'è invece perduto lo spirito minoritario, ribelle e quindi l'utopia.
L'onda della protesta giovanile e del femminismo si è infranta a riva. La nouvelle vague consumistica ha imbrigliato il "gaio ottimismo" imponendo comportamenti e stili e mimetizzandolo nei quartieri bene delle metropoli. Un contagio falso del linguaggio eterosessuale, orgoglioso stavolta di sparire in mezzo agli altri quanto prima di mostrare la faccia. Sembra che per colpa della libertà, gli omosessuali stiano perdendo il proprio patrimonio più importante: l'identità. Rinchiudendo in moderni quartieri-ghetto, full optional in quanto a servizi, divertimento e sesso, il loro passato di oppressi: "La parola minoranza è sparita dal lessico dei giovanissimi. Nemmeno cinque ventenni su cento si identificano con una realtà gay", spiega Rüdiger Lautmann, sociologo tedesco. Ecco l'altra faccia della conquistata normalità, obiettivo delle politiche di espansione dei diritti condotte in Europa. Il linguaggio gay reclama improvvisamente l'inclusione a tutti i costi. Gli spot tv rispediscono l'adolescente omosessuale Tadzio dal Lido di Venezia fin dentro la banalità di una villetta bifamigliare in collina. Rifugio accogliente come lo sono le pubblicità di McDonald's in Francia, ma anche rigido codice espressivo e comportamentale. Nel 1984, l'Italia conosce l'Aldo Busi rivoluzionario di "Seminario sulla gioventù". Il monoclino, fiore senza sesso, che da Montichiari sboccia nel Paese. Venticinque anni dopo, Busi è un divo della tv. Buono finché fa il professore ad "Amici" o il critico da parolaccia glamour nei salotti catodici. Ma non appena torna quello dell'84, viene cacciato da "L'Isola dei famosi". È un fatto di linguaggio, non di contenuti. Busi è utopista, quindi inadeguato al nuovo codice, alla fine dell'era gay. E in quei panni non può che essere espulso. È lo Stato benevolo che ci mostra il suo vero volto fascista, intervenendo sul modello identitario per forgiare anche l'omosessuale a proprio uso e consumo: "Per i gay over 30 il sogno non è la rivoluzione, ma sono 90 metri quadrati in un quartiere trendy, possibilmente in coppia, possibilmente sposati", continua il sociologo tedesco. Mentre secondo uno studio fatto per la Humboldt Universität, solo il 20 per cento degli adolescenti omosessuali crede che abbia ancora senso impegnarsi per un'affermazione più estesa e libera della propria identità. Significa che alla rivendicazione del sé, si è sostituita una forma di moderno agnosticismo, il credere che non serva più crederci. Un virus che sta cancellando la memoria dei gay. Il risultato è una società del "liberi tutti", quando la proposta era quella del "tutti liberi". Chi dal ghetto (culturale prima che sociale) uscì gridando "Gay is beautiful", oggi ci sta tornando sussurrando "Gay is normal". E mentre lo fa deve difendersi dagli attacchi, non più ideologici, ma fisici della nuova omofobia.
Nemmeno Internet è la piazza della liberazione post-gay, come molti vanno dicendo. È piuttosto la fotografia di questo fallimento. Se è vero che ha avvicinato gli omosessuali facilitandone l'incontro, soprattutto sessuale, crea però "un'utopia transitoria" (Bauman) una via di fuga dalla quotidianità, dai sogni, e dal confronto con gli altri. C'è una comunità gay che nella Rete si nasconde, anziché mostrarsi. Gay senza identità e volto quando camminano per strada, esplorabili in ogni dettaglio quando si celano dietro un nick name. Tutto questo lascia un senso di vuoto, secondo Christian Peters, direttore del Teddy Foundation, la rassegna omo del Festival di Berlino: "Mi sembra di essere tornati agli anni Venti, quelli dei cabaret segreti e dei cinematografi sotterranei. Ma non più per timore di farsi bollare, com'era allora, bensì per menefreghismo", spiega.
I nuovi diritti hanno sul piano espressivo, quello che permette trasgressioni semantiche, perché indica un futuro, un effetto collaterale anestetizzante. Dire "Gay Power" in America fa molto anni Settanta. Melissa Sklarz, la transessuale nominata da Barack Obama leader dell'ala gay dei democratici si sente assurdamente più sola adesso che lavora per la Casa Bianca di quanto lo fosse negli anni della clandestinità. "Quello spirito non esiste più. Ed è tragico. I due terzi degli adolescenti gay americani non sanno nulla del movimentismo e della lotta per i diritti che ha incendiato due generazioni di omosessuali e di amici etero. È triste che non si sentano più parte di qualcosa e si rischia che, in questo modo, la strada che ancora c'è da fare non venga mai percorsa davvero".
Visto così, il post-gay odora di rinuncia. Sembra la fine del desiderio. Il ritorno allo stato di "necessaria convivenza" dopo avere inseguito l'utopia dell'uguaglianza. Rimane la musica a legare i gay senza più linguaggio e memoria comuni. Le colonne sonore si ripetono con ossessione come un ritornello. "I will survive" di Gloria Gaynor la ritroviamo in "Priscilla la regina del deserto", "In & out" e ancora in "Quattro matrimoni e un funerale". Film molto diversi fra loro, tranne che per le scelte musicali. Così vale per gli Abba, Petula Clark, Judy Garland e Madonna. Ma montate su un immaginario gay che s'è rovesciato del tutto. "Another Country" di Marek Kanievska era la scelta diversa. "Le fate ignoranti" di Ferzan Ozpetek sono la normalizzazione.
La dimensione tenue della nuova omosessualità, che riflette la cultura del post-gay. "A forza di voler assomigliare sempre di più a persone qualsiasi, uguali e non diverse, i gay hanno vinto sugli omosessuali. Vogliono essere inclusi, digeriti", dice David Dibilio, lo sceneggiatore francese di "Gay... et après". Ma cosa verrà dopo l'integrazione dei diritti e dei linguaggi? C'è chi profetizza la disintegrazione degli omosessuali nella società, la diluizione delle particolarità nel tutto, appunto la fine dei gay. La differenza che diventa un dettaglio. Qualcosa che non ha più la forza di cambiare la propria visione del mondo. E quindi che ha rinunciato all'utopia di trasformare il mondo.
hanno collaborato Giacomo Leso e Simone Porrovecchio