Al museo Fortuny di Venezia in mostra una collezione di 'delphos', l'abito creato dall'artista catalano che rivoluzionò la moda dei primi del Novecento

Quando lo stile fa una piega

"Il delphos è forse l'unico vestito del XX secolo che, dopo poco più di cento anni dalla sua creazione, continua a mantenere la sua valenza di modello di abito ideale che ha saputo tenere il passo con lo scorrere del tempo". Le parole di Guglielmo de Osma trovano riscontro nella realtà, dato che ancora oggi la caratteristica forma rettangolare o a T dell'abito è di grande attualità.

Con queste parole de Osma introduce il catalogo della mostra "Mariano Fortuny la seta e il velluto", al Museo Fortuny di Venezia fino al 18 luglio. Si tratta di una raccolta di rari 'delphos', gli abiti plissé creati da Mariano Fortuny, presentati insieme a una selezione di cappe, mantelli, costumi e accessori, provenienti dalle collezioni private americane di Keith H. Mc Coy e della Famiglia Riad. Dopo anni di assenza, queste creazioni dello stilista spagnolo naturalizzato italiano, sono tornate nel laboratorio nel quale furono originate.

Proprio a Venezia, nel 1889, a palazzo Pesaro Orfei, il maestro spagnolo aprì il suo piccolo laboratorio, dopo essersi trasferito in Italia con la madre. L'estro creativo che scorreva nelle sue vene, (anche il padre era pittore), trovò sfogo sulle tele intonse, con gli scatti fugaci della sua macchina fotografica, negli studi sull'illuminazione teatrale. Ma forse la sua produzione più fortunata fu proprio la collezione di abiti. Di brevetto in brevetto, riuscì a stampare su sete e velluti leggeri e preziosi, disegni rinascimentali, copti, arabi, bizantini: imprimeva sulle due facce, poi ritoccava a mano con spugne e pennelli, applicando anche polveri d'oro e d'argento (che erano poi frammenti di rame e alluminio).

A partire dai primi anni del Novecento, Fortuny si appassionò alla produzione di stoffe e assieme alla moglie Henriette ideò un particolare tipo di plissé su seta e sistemi per la stampa su tessuti, ispirandosi alla tradizione decorativa catalana, veneziana, bizantina e al modernismo di William Morris.

Era quasi maniaco del passato e, ammirando statue greche e collezionando tessuti rinascimentali, disegnò tuniche di ispirazione neoclassica, medievale, copta o islamica. Nel 1906 creò un particolare velo, il 'knossos', ricavato da un rettangolo di più di quattro metri di lunghezza. Con questo esperimento imparò a utilizzare il volume, drappeggiandolo sul corpo, seguendo le sue forme naturali. Al 1907 risale il primo 'delphos', il suo vestito più famoso, che, con minime ma infinite variazioni, continuerà a produrre fino alla sua morte del 1949. Battezzato come un omaggio all'auriga di Delfi, l'abiti si ispira alle tuniche delle sculture classiche. Il delphos è essenzialmente un rettangolo di tela con delle aperture per il collo e per le braccia. Ben ancorato alle spalle, si adatta e si modella sul corpo. Il concetto fu in quel momento cosi innovatore e rivoluzionario che Fortuny decise di brevettarlo a Parigi nel 1909, proprio come fosse un'invenzione.

All'inizio del XX secolo, infatti, la donna era imbrigliata in una silhouette che non corrispondeva alla forma naturale del corpo, e che la obbligava all'uso di espedienti deformanti come crinoline, corsetti e sellini. Il genio di Fortuny fu proprio di comprendere prima di altri che erano finiti i tempi in cui la donna poteva essere costretta ad indossare abiti che le ingessavano i movimenti, l'emancipazione femminile - per la quale si battevano i movimenti femministi - stava aprendo una nuova era anche nella moda. L'abito del gentil sesso andava riformato, ricostruito secondo un'idea di libertà. Per questo motivo le sue creazioni furono etichettate come "impudiche".

In compenso i delphos divennero abiti cult per le donne più all'avanguardia, che volevano distinguersi, come Susan, Kay, Hilda, Albertine, la ballerina Isadora Duncan e soprattutto Eleonora Duse e la collezionista d'arte Peggy Guggenheim.

La nuova concezione del corpo introdotta da Fortuny, non più soltanto come una parte marginale della donna, da essere nascosto e modificato, ma come l'elemento di caratterizzazione che andava esaltato in tutta la sua sinuosità, piacque a tanti scrittori: da Proust che cita i delphos nei suoi romanzi a Gabriele D'Annunzio che lo definisce "un tintore alchimista".

La mostra, curata da Daniela Ferretti e Claudio Franzini, ridà vita a queste creazioni dimostrando come la moda, quand'è studio e ricerca stilistica, non passa mai di moda.

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