Edmondo Berselli riposa sotto una montagna di affetto. Non solo di stima, proprio di affetto. Essere stimati, per un intellettuale veloce di ingegno come lui, in fin dei conti è facile, quasi scontato.
L'affetto, invece, colse impreparati un po' tutti, gli amici, i lettori, gli estensori dei suoi necrologi. La morte prematura è solo una concausa. La causa vera - credo - fu l'improvvisa percezione che non era morto solamente uno spirito caustico, non solo un saggista acuto. Era morto un italiano disponibile, aperto, presente, complice nelle debolezze, compagno nelle vicissitudini politiche. Se l'acume intellettuale porta spesso alla diserzione (troppa intelligenza porta lontano) a Edmondo capitò l'esatto contrario: era vicino, visse esattamente in mezzo alle cose che gli e ci toccavano, proprio quelle e non altre, e "senza dar la colpa all'epoca o alla storia" (Gaber-Luporini).
Di questa sua costanza nell'esserci ci rendemmo conto, come capita, soprattutto quando si trattò di rivedere il suo percorso, riprendere in mano i suoi libri, tentare un bilancio della sua stagione così fervida e così breve (il primo titolo, "Il più mancino dei tiri", è del '95, l'ultimo, "L'economia giusta", uscì postumo nel 2010). Il cospicuo volume mondadoriano in uscita, che festeggia Edmondo come merita, raccogliendo tutti e undici i suoi libri, ci ricaccia nel computo ammirato di un quindicennio febbrile, eclettico, potente, rimettendoci al cospetto di una presenza intellettuale e umana di rara generosità. In morte di Edmondo si disse e si scrisse - ed era ovvio dirlo e scriverlo - che uno sguardo in grado di spaziare da Adorno a Patty Pravo, da Adam Smith a Mariolino Corso, e senza mai sovrapprezzare o disprezzare, era uno sguardo "moderno", munito dei suoi bravi codici "alti" e "bassi", perfettamente calibrato per posarsi sulla società di massa avendo per antivirus forti studi, e ottime letture. E sì, che il direttore del Mulino fosse così bravo da conoscere anche la differenza tra Battisti-Mogol e Battisti-Panella, era una prova di destrezza intellettuale da applauso. Ma la bravura di Edmondo (perché era bravo, ma bravo davvero) conteneva un innesco segreto, un piccolo mistero, e quel mistero, che lui seppe custodire con tanto pudore fino allo stremo, era l'amore per la vita. Non una virtù intellettuale, perlomeno non in senso stretto. Una facoltà dell'essere umano, della persona Edmondo Berselli.
Nella sua intensa prefazione a "Quel gran pezzo dell'Italia" (titolo della raccolta mondadoriana, che nazionalizza il titolo berselliano "Quel gran pezzo dell'Emilia"), Franco Marcoaldi fornisce sostanza critica a questa speciale facoltà. Un poco custodia dell'infanzia e della sua integrità, come antidoto allo scetticismo ("Adulti con riserva", 2007). Un poco una "scuola democratica" che insegna a non discendere la china insieme alla frana delle speranze pubbliche, a non rompersi i denti contro il nocciolo della realtà, a levarsi la puzza da sotto il naso anche quando il naso non può fare a meno di registrarla. E qui, proprio qui riconosco la lezione di Edmondo, non sempre percepita, ai tempi, per quello che davvero insegnava: il suo "anti-sessantottismo", per esempio, mi pareva restrittivo, troppo prudente, incapace di cogliere l'energia esistenziale di quel soqquadro mondiale.
Nell'Edmondo innamorato dell'Inghilterra e del suo pragmatismo, convinto che la piega trucemente ideologica dei Settanta avesse ucciso in culla un irripetibile moto democratico, vedevo soprattutto il riformista esitante. Ho capito tardi (l'ho capito solo "dopo") che Berselli intuiva non "più politica", ma "più vita" nel beat, nei capelloni, nello sciogliersi dei costumi sessuali; e avvertiva come mortifera la militarizzazione ideologica successiva, una sclerosi, un irrigidimento esiziale. Curioso, e istruttivo: è proprio una mossa "esistenziale", nel riformista Berselli, a costruire diffidenza per la foga rivoluzionaria...
A questo lo portavano i suoi studi, le sue letture? Anche. Ma a questo lo portavano soprattutto la sua sensibilità, i suoi gusti personali e le sue esperienze private, che sapeva dissimulare così bene dietro l'aplomb dello scrittore ironico, del derisore dei costumi (compresi i suoi), dell'economista razionale. Si guardava bene dagli sdilinquimenti, credo non gli sia mai sfuggita (come è appena sfuggita a me) la deplorevole espressione "amore per la vita", ma ciò che amava risulta al lettore non dico ad ogni pagina, ma quasi. Lo stile formidabile (è stato uno scrittore esemplare, il suo italiano è tanto ricco di sfumature quanto comprensibile) ha contribuito a fargli da scudo, Edmondo non si è mai "lasciato andare" se non, forse, nelle ultime pagine dell'ultimo libro pubblicato in vita, quel "Liù" (scritto "a quattro mani" con il suo labrador) nel quale apre un grande varco agli affetti, agli amici, a un impulso comunitario insolito nella sua lunga strada di parole. Ecco, Edmondo riuscì a far parte di una comunità ("l'Espresso", la sinistra in frantumi, i suoi lettori, i suoi tanti amici, l'Italia che legge e che scrive) senza darne l'idea, senza farlo pesare, senza chiederne conto agli altri né a se stesso. La naturalezza con la quale Berselli è stato "un intellettuale", cioè un signore che ci aiuta a riordinare almeno alcuni dei nostri pensieri, a indovinare un significato almeno in alcune delle nostre parole, è una lezione per chiunque produca cultura in questo Paese. Quando si parla di "ruolo dell'intellettuale" si dice in fondo, in maniera contorta, una cosa molto semplice: l'intellettuale bravo è uno che quando lo cerchi lo trovi, esattamente come il fabbro, l'elettrauto, il medico. I libri di Edmondo, e questo libro che li raduna tutti, sappiamo sempre quando cercarli e dove trovarli, negli scaffali caotici che incombono nelle nostre case.
Sappiamo, dunque, come trovare Edmondo.