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Cultura
settembre, 2011

Codice Faletti

Il padre ambulante. L'infanzia in cortile. Gli anni di Drive In. E poi il successo come scrittore, con milioni di copie vendute in tutto il mondo. Il giallista piemontese si racconta

Ripubblichiamo, in occasione della sua scomparsa, l'intervista del nostro giornale all'attore e scrittore Giorgio Faletti. Fu realizzata prima che Faletti partecipasse come ospite al Festival di Mantova del 2011
(4 luglio 2014)


Ai pescatori che lo salutano con un magro cenno del capo, lo scrittore da dieci milioni di copie piace in maglietta e bermuda. Mentre, finalmente indigeno, ancheggia da un motorino dietro la curva del pomeriggio. Dell'Isola d'Elba, dopo qualche inverno di ambientamento trascorso a inventare romanzi nel vento, Giorgio Faletti è ignorato sovrano. Montecristo è all'orizzonte ma il tesoro è qui, in una casa di pietra all'ombra della vecchia Capoliveri, dove ogni immagine, dai gabbiani ai nipoti che urlano è un'onda transitoria.

Radi capelli incastonano occhi azzurri che, però, non lo consolano: "Raggiunta la statura per guardarmi allo specchio del bagno, ho capito che sulla bellezza non potevo contare". Così si è industriato. Attore, comico, cantante, romanziere, oggi anche pittore, sul crinale dei 61 anni : "Perché della mia intelligenza dubito, ma alla curiosità non ho mai rinunciato".

I quadri, come tutto il resto, hanno un graffio fortunato e personale: "Un mio amico organizzò una mostra di beneficenza. Disegni di Joplin, Frank Zappa, Leonard Cohen e altri esponenti del mondo dello spettacolo italiano. Mi disse che avrebbe voluto ad ogni costo un mio dipinto. Così mi cimentai". Era la prima volta. Non si è fermato. In vetta alle vendite l'ha spinto un'alchimia di cui ancora non si dà conto. Era il 2002. Il titolo dell'esordio letterario, "Io uccido", impennò i fatturati di fiere e autogrill.

Faletti come andò?
"Il primo libro avrebbe dovuto raccontare la storia di un sicario a pagamento. In corso d'opera diventò tutt'altro. Ma se vai a cercare patate e trovi diamanti, in genere, li raccogli. Ammesso che "Io uccido" lo sia".

Il segreto del successo?
"La gente ha olfatto. Smaschera i bluff, le operazioni a tavolino, i volumi creati in laboratorio per trasformarsi in caso editoriale. Io scrivo ciò che sento, mi diverto e lavoro senza avere l'impressione di farlo. Se ci pensa, un vero privilegio".

Come nasce un bestseller?
"I miei hanno visto la luce qui, davanti al mare. Sveglia alle otto, colazione, salvifici ciondolii senza costrutto e poi, via, al computer. È un percorso lungo. Dura almeno sei mesi, ma non mi lamento. Se penso che faccio lo stesso mestiere di Hemingway e Vargas Llosa, mi sento mancare".

Male qualche anno fa si sentì davvero.
"Un ictus. Nei giorni dell'uscita di "Io uccido". Non so se furono più efficaci le cure dei medici o le notizie dalle librerie".

Fu un trionfo di vendite remunerativo.
"I soldi sono un sistema per vivere bene, ma non sono ricco, non ho pretese e non ho mai scelto una direzione artistica in base al denaro. Per certe proposte rifiutate, i miei antenati mi maledicono durante la notte. Con i guadagni ho acquistato una maggiore libertà, ma l'unica cosa che invidio davvero ai miliardari è la velocità negli spostamenti. Se per arrivare su Marte impiego 24 ore, il magnate ne spende sei. E il tempo, purtroppo, non puoi comprarlo".

Dopo la malattia il tempo è più importante?
"Per un istante ho creduto che il tempo fosse finito. La malattia ha aspetti truffaldini e nessuno ti viene ad avvertire. Arriva e basta. Uno ti batte sulla spalla: "È ora di andare. Subito". Rischiare l'esistenza mi ha cambiato la prospettiva. Ho imparato a non rimandare. Faccio solo quello che mi convince. Nei limiti di una ragionevole umanità, credo di essere coerente".

Per Prezzolini era la virtù degli imbecilli.
"Secondo me non è una virtù, ma una caratteristica. Coerenza non significa immutabilità. Tutti cambiamo e, all'improvviso, non siamo più gli stessi. Io sono corretto, dico le cose in faccia e mi rifaccio a un antico proverbio veneto: "La minestra ti sarà servita con lo stesso mestolo con cui l'hai servita tu"".

Cova rancori?
"Pochi, ma ci sono cose che non riesco a perdonare. Umiliazioni gratuite, persone che hanno colpito con perizia quando ero più debole e incapace di reagire. Non dimentico e non stimo i vigliacchi".

Ascendenze familiari?
"Sono cresciuto in una casa modesta, ma uno nasce dove indica il destino. Cinquanta chilometri in là e avrei potuto chiamarmi Agnelli, invece sono, senza rimpianti, figlio di Carlo Faletti. Mio padre era ambulante, mia madre sarta. Vivevano in periferia, quando raggiungevano il centro dicevano seri: "Andiamo ad Asti"".

I suoi la sostennero?
"Non avevano gli strumenti. Papà era meticoloso. Sognava di entrare in banca come fattorino, ma a causa di uno zio disertore nella Grande Guerra, un'onta incancellabile, non ce la fece mai. Mamma almeno ebbe la ventura di seguire il mio percorso. Ho voluto bene a entrambi, di quell'affetto che non ha bisogno di dimostrazioni".

Infanzia difficile?
"Felice. Colorata. Fantasiosa. Se uscivo dalla porta principale avevo il viale, sul retro si spalancava il Far West. La pianura, il ponte, la ferrovia, la libertà. La sera, in cortile, i grandi tornati dal lavoro giocavano con i più piccoli a Pallapugno. Nessuno aveva niente e ogni cosa era pulita, vivace, meravigliosamente semplice".

Imparò a leggere allora?
"Mio nonno aveva un magazzino. Come molti altri, nell'Italia del dopoguerra, si arrangiava. Comprava, rivendeva, ammassava senza requie i materiali più vari. Un giorno scaricò alcuni scatoloni di libri. La mia educazione alla lettura sbocciò nella sua cantina. Ho letto dei classici a un'età in cui di solito si leggono i fumetti. Ricordo "Per chi suona la campana" e un capolavoro dell'umorismo, "Tre uomini in barca". Per capire certi meccanismi comici, la lezione di Jerome è stata fondamentale".

Poi si laureò.
"In Giurisprudenza, per far felice papà. Tuttavia, più che il pezzo di carta potè il mio primo mentore, il dottor Villavecchia. Mi assoldò per una rivisitazione di Giulietta e Romeo. Andò benissimo: "Potresti persino fare l'attore". Gli diedi retta".

Risalì fino alla tv e approdò al "Drive In" di Antonio Ricci. Per alcuni, il principale detonante dell'odierno abisso culturale.
"Un'assoluta stronzata, se permette la licenza. Una polemica agghiacciante. Cleopatra si comportò come sappiamo e a quell'epoca, del "Drive In" non c'era traccia. Il nostro programma interpretò un cambiamento di costume, ma le innocenti ragazze seminude altro non erano che le nipoti delle gemelle Kessler. "Drive In" ribaltò gli schemi, ma se proprio dobbiamo indulgere all'oscurantismo, trovo peggiore la degenerazione del linguaggio. Ora, per dare cittadinanza a un testo di cabaret, c'è bisogno di almeno un vaffanculo. È deludente".

Non apprezza le parolacce?
"Al contrario. Fanno parte del linguaggio di tutti i giorni. Ma prima del turpiloquio vengono la creatività e lo spessore del personaggio. Se mi calavo nelle vesti della guardia giurata pugliese Catozzo Vito, un vaffanculo ci poteva anche stare. Ma nel linguaggio di Suor Daliso, no. Omologarsi al peggio o rubare le battute a un rivale era per chi veniva dalla vecchia scuola un lampante manifesto di incapacità".

Dei nuovi comici le piace qualcuno?
"Checco Zalone è un genio. E per sensibilità, tic e maschera è l'Alberto Sordi di oggi. Mi sono stancato dei comici che vogliono propinarmi un messaggio. Una risata è fine e messaggio insieme. Adoro Zalone perché ha il coraggio di sembrare stupido".

Il rimpianto la visita mai?
"Ho fatto qualche sciocchezza, ma credevo di essere nel giusto e se ho sbagliato è stato per tutelarmi. Comunque sono in pace".

La rallegra il consenso?
"Siamo onesti. A chi non piace essere adulato? Pare che la massima aspirazione di qualcuno sia diventare famoso per poi chiudersi in casa, non uscire e mostrarsi infastidito se ti chiedono foto o autografi. Ma allora perché fare tutta questa fatica? Non amo le persone che si esibiscono ma stravedo per quelle che una volta arrivate in cima, rimangono uguali al giorno prima".

All'Elba è possibile?
"Si è guardato intorno? Che io sia scrittore o contadino, alla gente del posto importa zero. Se avessi desiderato altro, oggi sarei a Formentera".

Invece vive qui.
"Otto mesi l'anno. Avevo un bilocale, venivo di rado. Un giorno persi il traghetto e partii da Piombino che era quasi l'alba. Sbarcai qui alle sei di mattina, con l'acqua piatta e la prima luce. Odori e sensazioni che da ragazzo provavo in Liguria, alle feste dell'Unità, quando la politica era secondaria e un calamaro fritto sembrava il Santo Graal. Pochi anni dopo vidi il sole incendiare il mare al tramonto e decisi di trasferirmi qui".

Pubblicherebbe un libro con Mondadori?
"Berlusconi come uomo di partito è una cosa, Mondadori è un'altra. Che si sia arrivati al punto per cui pubblicare con un dato editore riveste una valenza politica è spaventoso. Con Dalai mi trovo benissimo ma ora, in via eccezionale, pubblicherò un breve romanzo con Einaudi. È di Berlusconi, ma il libro l'ho scritto nel mio studio, non in una cabina elettorale".

Come si intitola?
""Tre atti e due tempi". Non è un giallo né un thriller, ma una storia di uomini. La scommessa è ambientare un racconto nel calcio parlandone il meno possibile".

Lo sport è una metafora?
"Dell'esistenza. È la guerra senza morti, feriti o bombardamenti. Una lotta senza lutti, in cui vince o dovrebbe farlo chi è più preparato. A volte non succede perché la vita non è un'equazione".

Vale anche per lei?
"Certo. Quando lavoravo al secondo romanzo mi chiedevo se ce l'avrei fatta. È andata bene, ma non covavo certezze".

Se le danno del pessimo scrittore?
"Mi rimane la libertà di pensare che esistano anche pessimi critici".

È un trapasso comune a molti colleghi?
"Dan Brown è stato vituperato, però con "Il codice da Vinci" ha venduto 40 milioni di copie. Ho il vago sospetto che abbia ragione lui".

Con il successo è piovuta anche l'invidia?
"La cosa non mi turba. Convincere tutti è statisticamente impossibile. Non ci è riuscito neanche Gesù Cristo".

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