Cultura
18 ottobre, 2013

Se il Festival è uno show

Da Bergamo a Perugia. Da Roma a Genova. E anche Napoli, che risorge dopo il rogo della sua Città della Scienza. Il Paese scopre la passione per biologia, fisica, matematica. Ecco perché 

La tranquilla isola Polvese, sul lago Trasimeno, in un fine settimana di bel tempo vede solitamente arrivare qualche centinaio di visitatori. Quando per un weekend di settembre è diventata l’Isola di Einstein, ne sono affluiti cinquemila. Il Festival della scienza di Genova l’anno scorso ne ha avuti 235 mila, un record che ha stupito gli stessi organizzatori. All’apertura delle prenotazioni di Bergamoscienza l’eccesso di contatti ha paralizzato il sito. Eppure, l’Italia è il paese che non legge. Con pochi laureati.

Dove la scienza è a fatica considerata cultura. Dove un Parlamento mai così distratto, tra un litigio e l’altro, ha avuto la bizzarra idea di approvare quasi senza opposizione le norme più insensate sulla sperimentazione animale o sulle colture transgeniche. Stupisce, e molto, che in questo clima tanta gente accorra non solo a vedere teatranti e mostre, giocare con le installazioni interattive, sperimentare nei laboratori, ma anche ascoltare una conferenza sui frattali o votare in un dibattito sugli Ogm.

Con tre importanti eventi in calendario in questi e nei prossimi giorni - il Festival della Scienza di Genova, Bergamoscienza e Futuro Remoto allestito proprio di fronte alla Città della Scienza bruciata a Napoli nel marzo scorso - abbiamo cercato di capire perché.

SI FA PRESTO A DIRE SUCCESSO

«Non c’è una chiave unica», assicura Vittorio Bo, direttore del Festival di Genova che sta per aprire i battenti (vedi box qui sopra): «Innanzitutto i festival hanno un carattere un po’ corsaro, di forte innovazione ma insieme rassicurante, dove puoi toccare con mano i personaggi, gli esperimenti, giocare con il gelato all’azoto…. Poi in Italia vengono fatti in posti belli, accoglienti, restituiscono alle piazze il loro carattere di socializzazione e di scambio intellettuale. Sono stimolanti, non hanno quelle barriere probabilmente inevitabili nelle strutture formative tradizionali. E la mera quantità di eventi dà un senso di necessità, “c’è tanta roba che non posso perdermela”».

Insomma, sono eventi. E come tali la gente ci va, quasi in automatico. Ma qui non si parla di letteratura, arte o filosofia: i temi cari agli italiani. C’è di mezzo la scienza. E a molti sembra che una delle ragioni per capirne l’appealing sta nel fatto che sono pressocché gli unici luoghi dove biologia, fisica o astronomia e matematica sono al centro della scena. Ci sono i festival e c’è la scuola. E su questo binomio si gioca molto. Perché le scuole sono più di metà del pubblico festivaliero: insegnanti e studenti accorrono a frotte e viene da pensare che i docenti vengano qui a cercare un nuovo modo per insegnare la scienza. Nei laboratori, nell’approccio coi protagonisti, nella spettacolarizzazione o, più semplicemente, nell’incontro con altri ragazzi e insegnanti.

«La gente ha imparato che può fidarsi: il festival è un marchio di qualità per i contenuti e i relatori», aggiunge Mario Salvi, endocrinologo all’Università di Milano, presidente di Bergamoscienza: «Abbiamo nomi di grande attrattiva come l’astronauta Paolo Nespoli o il neuroscienziato Oliver Sachs. Ma pochi sanno chi sono molti dei nostri ospiti. Chi sa, ad esempio, chi è Jack Szostak e perché la scoperta della telomerasi gli è valsa il Nobel del 2009? Il pubblico però sa che noi li conosciamo bene». E sa che avrà spazio per essere a tu per tu coi grandi del pensiero forte. «Anche se c’è un Nobel, gli diciamo sempre “tu parli 40 minuti, gli altri 40 vanno lasciati al dibattito”».

È questo, forse, il nodo centrale. Sotto il sole delle piazze o fra i neon delle aule, con installazioni o relatori in carne e ossa, con format ludici o seriosi, questi eventi portano la scienza in mezzo alla gente, offrendo occasioni d’incontro irripetibili. Dove altro si potrebbero fare a uno scienziato quelle domande? E di occasioni simili c’è un gran bisogno non solo da noi, se John Durant, direttore del Mit Museum di Cambridge nel Massachusetts, raccontava su “Science” che persino lì, fra Harvard e il Mit, in una delle aree a maggior densità scientifica del pianeta, vaste fasce di abitanti hanno scarse occasioni di contatto con chi la scienza la fa, e perciò nel 2007 ha inaugurato il riuscitissimo Cambridge Science Festival.

EFFIMERO SARÀ LEI

Ma in fondo, cosa se ne ricava? È solo cultura dell’effimero, divertimento che scorre senza lasciar traccia, o chi partecipa ne esce un po’ cambiato, con più comprensione, curiosità, voglia di approfondire? E cosa resta nel tempo dell’entusiasmo iniziale? È una domanda con ancora con poche risposte. «La valutazione scarseggia, e di rado considera gli effetti nel tempo. L’intenzione di farla si scontra ogni volta con i soldi: i fondi vanno cercati daccapo ogni anno, perché di rado sponsor ed enti pubblici fanno programmi di lungo respiro, e nell’urgenza la valutazione non è mai fra le priorità», spiega Leonardo Alfonsi, che dirige il Festival della scienza di Perugia e da luglio 2012 presiede l’Eusea, l’Associazione europea degli eventi scientifici.

Eppure il fatto, a oggi, è che i festival aiutano davvero a costruire un’immagine nuova della scienza, che si fa interessante, divertente e abbordabile, a rimuovere timori e barriere, a stimolare curiosità, slancio ed esplorazione. «La fidelizzazione del pubblico è evidente: parecchi ormai ci aspettano, ci scrivono “ma non è ancora pronto il programma?”», dice Alonsi. E aumenta anche la competenza. «A Genova come a Roma, ma anche a Mantova o a Modena, negli anni ho visto crescere la qualità delle domande, la preparazione e la voglia di capire» sottolinea Bo.

L’impatto di maggior respiro sarebbe ovviamente un contributo alla costruzione di quella tanto sospirata cittadinanza scientifica la cui mancanza è fra le radici più trascurate del declino culturale ed economico italiano, come Pietro Greco e Bruno Arpaia ci ricordano ancora una volta nel libro “La cultura si mangia”, uscito con l’editore Guanda. E di certo si mangia con la scienza che si traduce molto spesso in business. Tanto che, annota Bo: «L’anno scorso abbiamo lanciato il programma Futuro Prossimo, dialoghi tra studenti e professionisti come nanotecnologi o venture capitalist, che raccontano cosa accade nei loro mondi, quali nuove professionalità emergono, così da proporre idee e modelli nuovi».

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