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Cultura
ottobre, 2014

Gilles Caron, il Novecento e gli uomini in guerra

Dalla guerra civile in Irlanda del Nord al Vietnam, dal Maggio francese alla guerra dei Sei giorni. Le immagini del fotoreporter francese hanno raccontato per i grandi giornali europei i conflitti della seconda metà del secolo. Ora una grande mostra celebra il fotografo scomparso nel 1970

Due teste, così diverse. La prima è di un miliziano biafrano, nel 1968, durante la guerra civile in Nigeria. In senso iconico Biafra, di solito, uguale bambini denutriti, occhi, costole, ventre gonfio; qui è il volto di un guerriero secessionista, stanco, dolce, percorso da un’ombra di stupore, che reca in capo, legato con uno straccio, una corona di sei proiettili di cannone come fosse un carico di frutti.

La seconda (il manifesto della mostra) è la testa di un uomo bianco pensieroso, sotto l’elmetto d’ordinanza. È quella di un soldato americano in Vietnam, inverno 1967, battaglia di Dak To. Non è più un ragazzo, ha lo sguardo basso, la barba di tre giorni, il mento che poggia sul palmo della mano in un momento di stacco emotivo, ma è chiaro che siamo lontani da Auguste Rodin...

[[ge:rep-locali:espresso:285133093]]La mostra di cui parliamo è del fotografo di guerra francese Gilles Caron, e il titolo è perfetto: Le conflit intérieur. Prodotta dal Jeu de Paume di Parigi, ospitata al Castello di Tours (fino al 2 novembre) proprio in riva alla Loira dalle acque opache, gonfiate dalle piogge. Caron è, stranamente, una figura dimenticata da molti, persino in Francia. E invece merita di essere ricordato, raccontato. E rispettato. Perché portò nel reportage di guerra e di ribellione (fu uno dei cronisti del Maggio ’68 parigino) un elemento riflessivo, di “interiorità”, che sarebbe improprio dire esistenzialista ma che con il dolore dell’esistere ha molto a che vedere.

Per capire chi è stato Gilles Caron, co-fondatore a Parigi dell’agenzia Gamma, bisogna partire da un topos classico della letteratura e dell’arte: la morte giovane. Gilles, nato nel 1939 a Neuilly-sur-Seine, figlio di genitori separati, precoce viaggiatore in autostop (Jugoslavia, Turchia, India) morì, infatti, a soli 30 anni. Prima di Mozart, prima di Rimbaud. Più che morire, scomparve. Scomparve in data imprecisata dopo il 5 aprile 1970 in Cambogia, sulla strada N° 1 tra Saigon e Phnom Penh, in una zona controllata dai guerriglieri Khmer Rossi di Pol Pot. Gilles Caron morì da eroe, e non lo seppe mai. Nel documentario che lo ritrae, l’autrice Sévérine Lathuillière lo definisce un «eroe involontario». Morì mentre faceva giornalismo, l’ardito giornalismo francese di allora, e chissà se ne valse la pena. Ma l’atto eroico, al netto della retorica, è così raro, e dunque così prezioso, che merita che anche noi, quarant’anni dopo, ci fermiamo un istante a riflettere.

[[ge:espresso:visioni:societa:1.184161:image:https://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.184161.1413378980!/httpImage/image.jpg_gen/derivatives/articolo_480/image.jpg]]Il giovane ardimentoso lavorò, come reporter di guerra, solo quattro anni: dal 1966, quando entrò in Gamma, al ’70. Lasciò circa 500 reportages, e da qualche tempo è all’opera una Fondation Gilles Caron, che ha assistito i curatori al Castello di Tours, Michel Poivert e Jean-Christophe Blaser.

Ripercorriamo le immagini più struggenti; è come spiare una vita bruciata da una serie di vampate. Gilles Caron significa coraggio, e senso dell’azione. È proprio questo il secondo punto chiave della sua vicenda: la scelta della fotografia dopo l’esperienza della guerra vissuta. Praticante di paracadutismo fin da ragazzo, si fece, da parà, 28 mesi di guerra d’Algeria, tra il 1959 e il 1961. Assisté ai massacri di civili, ne fu profondamente scosso. Rifiutò di continuare a combattere dopo il putsch di Algeri. Subì due mesi di carcere militare. E infine decise: fotoreporter. Dichiara il curatore Michel Poivert: «Gilles maturò presto un punto di vista etico, ed espresse nella maniera più profonda questo disagio nello sguardo fotografico». I suoi scatti non rivelano solo il partecipare all’azione, ma «la modernità della guerra asimmetrica». A cui tuttora assistiamo, con il coinvolgimento della popolazione civile, in Iraq, a Gaza, in Congo, in Somalia.

In mostra colpisce come uno schiaffo l’immagine di un cane nel deserto del Sinai. È un cane bianco, e strappa un braccio, si direbbe, dal corpo in divisa di un soldato egiziano morto. La Guerra dei Sei Giorni in diretta fu uno dei primi colpi che Caron fece per “Paris-Match”, “L’Express”, “Life”. Curiosamente, pochi mesi prima era stato in Israele seguendo, da fotografo di costume, i concerti di Sylvie Vartan; quando vi ritornò stava con le truppe di Moshe Dayan, il generale con l’occhio da pirata. C’è una foto di Dayan che, come un soldato qualunque, sosta pensoso al Muro del Pianto; in un’altra, quasi un’inquadratura alla Antonioni, un grumo di soldati su un tank si affacciano al deserto come a un nulla metafisico.

Una sezione si intitola “Coscienza infelice”, una “I dolori degli altri”. Immagini crude, a volte. In Biafra, una donna che si va carbonizzando su una jeep in fiamme. Sempre in Biafra, una grande foto simbolica di avvoltoi. Ma il colpo più duro, al suo stesso mestiere, Gilles lo sferra a Raymond Depardon, uno dei campioni di Gamma: fotografa il celebre reporter in piedi mentre filma in super 8 l’agonia di un bambino biafrano rattrappito nella polvere davanti agli sguardi vuoti di altri ragazzini. Quella foto fu tra le prime a porre la domanda: qual è il limite del giornalismo di testimonianza?

Gilles Caron incarna, anche, il gusto libertario degli anni Sessanta. Il fante americano in Vietnam con la scritta “Love” sull’elmetto ci ricorda il soldato riflessivo di Kubrick in “Full Metal Jacket”. Lo stesso vale per il ragazzo nero che legge la lettera di chissà chi, la madre, la ragazza lontana. E anche per l’autoritratto di Gilles a Dak To, novembre 1967, in margine a uno scontro cruento, elmetto, Gauloise, zaino, la reflex graffiata, e dietro di lui uno sfasciume di tronchi divelti.

Sono molto interessanti anche le immagini delle rivolte urbane d’Europa. Non solo la sua famosa foto di Dany Cohn-Bendit in giacca spigata che interroga ironico un milite in tenuta antisommossa. Gilles ritrae i “lanciatori di pietre” da dietro le spalle, vicinissimo all’azione, eppure a volte paiono gesti estetici, da danzatori. A Praga i giovani malvestiti, dai capelli sporchi, che fronteggiano i russi della loro stessa età sono l’essenza del ’68 più profondo (non quello mediatico-mondano dei Mario Capanna alla Statale). A Londonderry, durante gli scontri tra cattolici e lealisti, la scritta “Fuck the Queen” sui muri scrostati è giornalismo pop o kubrickiano. Ma la ragazza irlandese smarrita, sullo sfondo il quartiere sconvolto da sassaiole e cingolati, assume una forza biblica.

Passano così in secondo piano gli scatti che, a Parigi e Londra, tra una guerra e l’altra, Gilles s’inventò intorno al nascente fashion system: l’esile modellina Twiggy che si allaccia i pattini a rotelle; Romy Schneider mentre legge “Watt” di Samuel Beckett; Bob Kennedy assorto davanti alle “Demoiselles d’Avignon” di Picasso; Jean-Pierre Léaud sul set di “Baci rubati” di Truffaut. No, ai nostri occhi il racconto più vero e toccante resta quello di guerra. Perché la guerra, di Gilles Caron, fu il karma personale. Nel 1970, pochi mesi prima di scomparire in Cambogia, rischiò la vita in Ciad, fu rapito dalle forze governative, con tre colleghi, e rilasciato dopo brutti momenti. La morte giovane, l’eroe involontario, si diceva. Destino, premonizione, karma: quasi fosse tutto scritto.

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