Una casalinga ingrigita. Un impiegato metodico. Un delitto maturato ?nel silenzio. Che solo la voce della vittima è in grado di spiegare. Il nuovo caso del Commissario Ricciardi per i lettori de “l’Espresso”

Maurizio De Giovanni
A volte succede che non si debba scavare, per scoprire quella gemma nera che ha portato alla morte. A volte ce l’hai là, in superficie, a mandare quei bagliori scuri che ti ricordano che orribile belva sia l’uomo, peggiore di ogni altra bestia. I sentimenti. Le orribili passioni che nutre giorno per giorno, ignorando la marea che lo porterà nell’abisso.

A volte ci chiamano solo per prendere atto di quello che è accaduto. Per guardare il sangue fermo e le ferite, aperte come finestre sul male. E quasi tutti noi non possiamo che guardare, avvolti nell’impotenza e nella malinconia, e portar via il colpevole lasciando che qualcuno ripulisca le tracce di tutto quel dolore dai pavimenti, dalle mura, dalle lenzuola. Quasi tutti. Io no.

A me è toccato l’infame destino di sentire qualcos’altro. Di ascoltare parole mai pronunciate, di subire l’impatto di pensieri mai compiuti che rimangono sospesi nell’aria come un puzzo. Io sento i morti parlare, per completare l’ultimo assurdo ragionamento, per raccontare l’ultima terribile sensazione.

Il grosso delle volte è solo sorpresa, malinconia, paura. Sono parole di rimpianto o di inutile ricerca di aiuto. Ma a volte non è così; a volte spiegano quello che è successo; alzano il velo sulla zona d’ombra che resta nascosta, e quasi sempre è peggio. Molto peggio.
Letture
Racconti d'estate: 'Preso!' di Diego De Silva
4/8/2015

Ricordo che faceva caldo, quel giorno. Un caldo terribile, di quelli che tolgono il cuore dal petto e lo seppelliscono da qualche parte per consentirgli di sopravvivere mentre il resto del corpo si decompone. Le vie erano pressoché deserte, la gente si difendeva cercando ombra o gettandosi nel brodo caldo e fermo che era il mare, per un illusorio refrigerio. Era il Ventotto, forse il Ventinove; la memoria delle estati si confonde, come quella degli inverni, a tanta distanza. Meglio così.

Ci aveva chiamato una signora resa quasi immobile dalle enormi, gonfie gambe che teneva appoggiate su una sedia; e così ci ricevette, il volto severo sotto un’imponente acconciatura e sopra un vestito nero a fiori rossi disperatamente teso sul ventre immenso. In piedi dietro di lei una sudatissima ragazza in grembiule inamidato e con una cuffietta stretta sulla testa, che era venuta in questura su ordine della signora e ci aveva accompagnato fin là.

La signora parlò solo quando mi fui presentato, commissario Luigi Alfredo Ricciardi della squadra mobile, e quando si fu presentato il mio compagno, il brigadiere Raffaele Maione. Annuì, come soppesando l’informazione. Poi disse di chiamarsi Maria Carmela Logiudice, originaria di Casavatore e trasferitasi per matrimonio, vedova da quasi dieci anni.

Il marito era un commerciante e le aveva lasciato di che vivere, per fortuna perché come vedete, commissa’, sono malata e non mi posso muovere. E per questo devo tenere per forza la serva, si chiama Rosaria, è una deficiente fannullona che dovrei rimandare al paese suo a calci nel sedere, ma purtroppo non mi riesco nemmeno ad alzare, figuratevi a dare calci. La ragazza se ne stava là a occhi bassi, le mani strette in grembo: era evidentemente abituata a sentire gli insulti della padrona. Va be’, signo’, grazie delle informazioni, disse Maione sudando copiosamente sotto al berretto; ma possiamo sapere perché ci avete mandati a chiamare?

Maione è alto e robusto come una montagna, e come una montagna non ama camminare in salita; il palazzo della Logiudice era alla fine di una strada irta e contorta e il caldo era soffocante. La Logiudice lo fissò offesa, ma Maione quando ha caldo è tetragono, quindi alla fine la donna abbassò lo sguardo e disse: un’ora fa la signora affianco ha bussato alla porta, e ha detto che il marito non sta bene. E io ho mandato la serva a chiamarvi. Come, disse Maione, il marito non si sente bene e voi chiamate la polizia? Sì, disse la vecchia. Perché la serva è entrata a vedere, e ha detto che stava tutto sangue a terra. E che la signora teneva un coltello in mano.

A volte tutto è facile. A volte basta dare un’occhiata in giro e si capisce bene quello che è successo. Entrammo nell’appartamento dalla porta socchiusa sulla quale una targhetta d’ottone indicava “Rag. Russo Antonio”, dirigendoci verso l’unico rumore che proveniva dall’interno, uno sfregamento ritmico. In cucina trovammo una donnetta dai capelli grigi prona a terra che strofinava uno straccio su un’ampia macchia nera sul marmo del pavimento.

Dalla macchia partiva una scia che entrava in un’altra stanza la cui porta era accostata. La donnetta si fermò dal pulire, sospirò e alzò gli occhi su di noi. Non verrà mai via. Chissà per quanto dovrò pulire, e rimarrà sicuramente l’alone. Mi parve una persona beneducata e di buona cultura, nonostante l’aspetto insignificante e piuttosto dimesso. Maione mi toccò il braccio, indicando con lo sguardo il tavolo sulla cui superficie era adagiato un lungo coltello di quelli con cui si taglia la carne per il ragù della domenica; ciò che ne imbrattava la lama, però, non era salsa di pomodoro.

Il brigadiere si avvicinò alla signora e l’aiutò ad alzarsi. Lei si sedette e sospirò, passandosi una mano sulla faccia per asciugarsi il sudore; non si accorse di stare lasciando sul viso una lunga traccia di sangue. Le dissi chi eravamo e chiesi, piano, come si chiamava. Assunta, mi disse. De Caro Assunta, coniugata Russo. Anzi, commissa’, vedova Russo. A questo punto ridacchiò, come se la battuta la divertisse un mondo. Ne ho viste tante, sapete, ma quella risata mi fece correre un brivido lungo la schiena. Che è successo, signo’?, disse Maione.

La donna lo fissò, sbattendo un po’ le palpebre come fa chi ha ricevuto una domanda difficile e deve trovare le parole giuste per rispondere. E che è successo, brigadie’. Mica è facile, spiegare che è successo. Mio marito non sta bene. Non sta proprio bene. Sta di là, l’ho messo a letto. Quando uno non sta bene è meglio che si mette a letto, no? Con questo caldo, poi. Indicai con un cenno della testa a Maione di andare a vedere, mentre io rimanevo a sorvegliare De Caro Assunta, vedova Russo. Non si sa mai: sembrano tranquilli, poi all’improvviso si tagliano la gola, o saltano dalla finestra. O tutte e due le cose.

Maione andò e tornò, pallidissimo. Pure lui ne ha viste, forse più di me, ma lo spettacolo della stanza da letto dei coniugi Russo doveva essere speciale perfino per lui. Scosse il capo e si andò a mettere tra la donna e il coltello. Assunta riprese a parlare, fissando il vuoto davanti a sé. Teneva un gomito sul tavolo e l’altro braccio appoggiato sulle gambe; sembrava in tutto e per tutto quello che era, una donnetta di mezz’età che non vede l’ora di raccontare la sua vita a chi l’ascolti.

Mio marito, commissa’, fa il ragioniere al catasto. È un buon impiego, sapete. Non guadagna moltissimo, ma stiamo bene; ci possiamo permettere di andare al cinematografo, una volta ogni mese, e pure di festeggiare l’anniversario con una gitarella al fresco del Vesuvio, noi ci siamo sposati d’estate. È stato ventiquattro anni fa, l’anno prossimo facciamo le nozze d’argento.

Anzi, non credo che le facciamo, adesso, no? Cioè, una non se le può mica fare da sola le nozze d’argento. Devo chiedere a don Pierino, della parrocchia di San Ferdinando, se valgono lo stesso, le nozze d’argento. Insomma, stiamo benino a soldi, pure perché non abbiamo avuto figli. Noi ne volevamo, io soprattutto: a che serve una moglie se non fa i figli? Ma non sono venuti, e poi a un certo punto non ci abbiamo provato più. Don Pierino dice che bisogna accettare la volontà del Signore, se non li vuole mandare i figli, allora non li manda. E che vi devo dire, commissa’, gli anni sono passati uno a uno.

A ripensarci, gli anni passano subito; sono le giornate, che non passano mai. Mio marito stava al lavoro sempre più tempo, io il pomeriggio in parrocchia a sentire i vespri, a dire qualche rosario. Quando ho finito di rassettare la casa e di preparare la cena per Antonio, quando la luce cala e viene la sera, mi fa paura stare in casa da sola. Qualche volta vado dalla signora Logiudice, l’avete conosciuta? Sì? Non è molto socievole, in verità; forse perché sta su quella poltrona e non si può muovere, e dopo un po’ fa capire chiaramente che si è di disturbo e che è meglio tornarsene a casa. E insomma, commissa’, quando Antonio tornava a casa non sempre mi trovava, ma io tornavo presto e cenavamo.

Il tono della donna aveva una nota di profondo dolore che non emergeva dalle parole. Ricordo che riconobbi l’eco che veniva dall’abisso di una profonda, immensa solitudine. Certi matrimoni diventano una condanna all’ergastolo, dalla quale prima o poi si tenta di evadere. Maione, come fa sempre quando è a disagio, bilanciò il peso del corpo da un piede all’altro. Il sudore gli colava in rivoli sulla faccia. La donna riprese a parlare.

Man mano, commissa’, sono finite le parole. Non che ci fosse un risentimento, no; ma semplicemente sono finite le cose da dirci. Lui tornava e si metteva il pigiama, a volte così lo trovavo quando tornavo dai vespri. Io riscaldavo il mangiare e lo mettevo in tavola. Lui accendeva la radio. Io sparecchiavo e lavavo i piatti. Lui se ne andava a letto col giornale. Io mi mettevo a letto e mi addormentavo. La mattina si alzava, si radeva, si vestiva e mi diceva: io vado. Quelle erano le uniche parole sue. Io dicevo: buona giornata. E quelle erano le parole mie. E un altro giorno era passato, e un altro era incominciato. Inverno, primavera, estate, autunno.
In tono sommesso chiesi: e oggi, signora? Ditemi di oggi. Di quest’ultima giornata.

Si riscosse lievemente, come accorgendosi solo allora della nostra presenza. Fece girare lo sguardo attorno, corrugando gli occhi quando vide la macchia bruna sul pavimento.

Non verrà via facilmente, sapete. Il sangue macchia. Ci vorrà molta acqua e molto sapone. Oggi l’ho trovato qua, in cucina. In genere si mette a letto, o nell’altra stanza vicino alla radio col giornale, invece era qui, proprio seduto su quella sedia. Era una cosa strana, mio marito è, come dire, metodico. Abbiamo parlato un po’. E poi io ho preso il coltello dal cassetto, là dietro, alle sue spalle, mentre lui stava parlando senza guardarmi, e ho fatto quello che ho fatto.

Il silenzio era di piombo. Maione sussurrò, come per non disturbare troppo: e che vi siete detti, signo’? Che vi ha detto vostro marito, per fare… per fare questa cosa che avete fatto? La donna, inaspettatamente, sorrise triste.Non sono cose che vi riguardano, brigadie’. Cose di famiglia. A voi basta sapere che è successo, e chi è stato, no? Be’, sono stata io. E quest’è.

A volte è facile, sapete. Tutto chiaro, niente da chiedere. Andai di là, seguendo la scia a terra. Russo Antonio, ragioniere del catasto, era stato adagiato sul letto e composto. De Caro Assunta, la sua recente vedova, lo aveva quasi decapitato. Il taglio andava da un orecchio all’altro e si intravedeva il bianco della trachea aperta e delle vertebre. Un occhio era aperto e un altro era chiuso, a dare l’idea di un osceno ammiccamento, mentre dalle labbra socchiuse veniva il bagliore di un dente d’oro. I radi capelli erano stati ravviati, come con una carezza frettolosa. Il letto era intriso di sangue.

Seduto di fianco al suo cadavere, il ragioniere continuava a sanguinare dalla gola tagliata e mormorava, solo per la mia martoriata coscienza, l’ultima frase che stava pensando quando era morto: sarà pure una serva, ma avrò il figlio che non sei stata capace di darmi. Sarà pure una serva…

Rimasi un attimo ad ascoltare, gli occhi chiusi, l’odore del sangue nel naso.

Quando uscimmo, portando via la signora, sul pianerottolo c’era Rosaria, la cameriera della Logiudice. Stava in un angolo e piangeva a dirotto, tenendosi una mano sul ventre. L’assassina non la degnò di uno sguardo.

A volte non c’è da indagare, e tutto si chiude con una cassa portata via e un reo confesso in galera. Sembra facile. Ma poi si alza un tombino, e viene fuori l’odore della fogna che portiamo dentro e della quale ci dimentichiamo.

Sembra facile, ma non lo è mai.
Credetemi.

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