E non posso e non voglio limitarmi a osservare che l’autore è troppo smanioso di piacere, che fa troppi giochi d’artificio, mette troppo zucchero o troppo sale. Insomma, non posso e non voglio farmi vincere da una certa stizza e decretare, sic et simpliciter, che Jonathan Safran Foer, al suo terzo romanzo dopo “Ogni cosa è illuminata” (2002) e “Molto forte, incredibilmente vicino” (2005), ha scritto un testo così accattivante da risultare stucchevole, così furbo da offrirsi, prima ancora che a essere letto, a essere hollywoodato (se permettete l’orrido neologismo).
Ma non posso e non voglio. E il perché consiste nel fatto che lo scrittore americano ha talento, è brillante, sa che cosa è il sense of humour, e crede davvero nella letteratura. E questo lenisce il fastidio e muove a un certo rispetto. Perché Safran Foer (forse non a caso ribattezzato Savoir Faire da Jonathan Franzen) possiede a tratti la grazia e l’inventività del vero scrittore, ne possiede l’intelligenza, la vulnerabilità, direi persino l’incertezza (che in fondo è la sua dote migliore).
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Certo, ci sono difetti, nel libro, che hanno quasi dell’incredibile. Per esempio, la storia della giovane famiglia Bloch, ebrei mediamente privilegiati in quel di Washington, capaci di ferirsi a morte l’un l’altro per motivi che definire inessenziali è poco - bene, questa famiglia viene messa per un momento a tacere nelle sue lagne e tormenti da un evento catastrofico: uno spaventoso terremoto in Israele, a cui fa seguito una guerra violentissima in tutto il Medio Oriente. Il che accade più o meno a pagina 300, quando ormai il lettore langue dietro alle beghe dei Bloch. Ora voi credete che un tale accadimento un po’ fantascientifico e un po’ fantapolitico produca segni marcati sulla trama? No. Safran Foer continua a imbastire i suoi giochi di prestidigitazione come ipnotizzato da se stesso.