Cultura
26 settembre, 2016

Tiziano Sclavi e la fatica essere Dylan

Dopo i romanzi aveva annunciato di voler smettere coi fumetti. Invece torna con una nuova avventura dell'Indagatore dell'incubo. E racconta la sofferenza di creare storie

Da una parte c’è Dylan Dog, l’Indagatore dell’Incubo, il secondo fumetto più venduto della Sergio Bonelli Editore, cacciatore di mostri e sciupafemmine; dall’altra c’è Tiziano Sclavi, che di Dylan è il creatore, scrittore e romanziere, ora in pensione.

La storia d’entrambi comincia trent’anni fa, nell’ottobre del 1986, quando venne pubblicato il primo albo di Dylan Dog. Titolo: “L’alba dei morti viventi”. Fin da allora fu chiara una cosa: Dylan non sarebbe stato il solito eroe. O anti-eroe. O personaggio dei fumetti. Dylan era, ed è, un uomo del suo tempo, solo, spezzato, detective e investigatore, appassionato e condannato, bello e impossibile, playboy e clarinettista amatoriale. Fu simbolo degli anni ’80, precursore degli anni ’90, sintesi e trattato di una generazione intera. Celebrato da grandi e da grandissimi. «Posso leggere la Bibbia, Omero o Dylan Dog per giorni e giorni senza annoiarmi», diceva Umberto Eco.
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Parlarne oggi con Tiziano Sclavi è cosa assolutamente incredibile. In parte perché Sclavi non concede molte interviste (e questo l’avrete letto ovunque); e in parte perché, dopo aver annunciato il suo ritiro, Sclavi è tornato a lavorare su una nuova storia, che verrà pubblicata da Roberto Recchioni, curatore di Dylan Dog per la Sergio Bonelli Editore, il 28 ottobre. Disegni di Giampiero Casertano. Titolo: “Dopo un lungo silenzio.” Copertina bianca, scritta enorme e rossa: una scelta coraggiosa per tanti motivi.

«Pronto, maestro Sclavi?». Dall’altra parte risponde una voce calma, vibrante: «Sì?». Una pausa lunga, di silenzio, e poi cominciamo. Prima domanda: convenevoli. Come sta? È un buon momento? «Sto così così. Non sto molto bene in generale, ma... va bene». Un’altra pausa. «Va bene».

Se permette, partirei dal suo ritorno come sceneggiatore di Dylan Dog.
«Non è un ritorno. Tra gennaio e febbraio, anche dietro le preghiere insistenti di Roberto, avevo qualche idea e ho scritto un paio di storie. Tutto qui. Poi ne avevo cominciato una terza, ma mi sono già bloccato».

Dove è arrivato?
«A tavola 25, non sono più andato avanti. Ho già smesso un’altra volta! (ride)».

La copertina della nuova avventura di Dylan Dog
Perché?

«Sa, quando ero giovane, per me la scrittura era solo piacere. Scrivevo di tutto, ma proprio di tutto, senza fatica. Poi nel corso degli anni la scrittura è diventata metà piacere e metà fatica. E adesso è rimasta solo questo: la fatica».

Mi diceva di due storie. Di che cosa parlano?
«La prima è una storia di fantasmi, diciamo così. Anche se non si vedono. Anzi, non si vede: è uno solo il fantasma. Ed è una storia sull’alcolismo».

Parla di “Dopo un lungo silenzio”?
«Esatto. La seconda è composta da due storie intrecciate: su un serial killer e su un barbone che prevede il futuro».

Per “Dopo un lungo silenzio” è stata scelta una copertina completamente bianca. Che cosa ne pensa?
«È Roberto che decide le copertine. E a me, le dirò, piace anche. Forse è un po’ azzardata, non so come la prenderà il pubblico! Penseranno: “Qui si son dimenticati il disegno!” (ride)».

Con il tempo, e il passaggio di testimone tra autori e curatori, tra lei e Roberto Recchioni, Dylan è cambiato. Prendendo qualcosa da tutti i suoi scrittori.
«È giusto. Ogni autore deve mettere qualcosa di sé dentro il personaggio».

E di lei? Che cosa aveva Dylan Dog quando pensò alla prima storia?
«È difficile dirlo. Inconsciamente gli ho dato di sicuro alcune cose mie, non tutte, certo. Alcuni tratti del carattere, penso. Ma alla fine siamo estremamente diversi».

Si ritrova ancora nelle nuove storie?
«Guardi, io non ho più la gestione di Dylan Dog da tanti anni. E come lettore confesso di non leggere tutti i nuovi fumetti. Cosa di cui mi vergogno. Adesso c’è Roberto e sta facendo un lavoro eccezionale e al quale ho dato carta bianca».

Se non i fumetti, che cosa legge?
«Ho tanto tempo, sono in pensione. Ma faccio ancora un po’ di fatica a leggere. Comunque da anni mi sono specializzato: leggo solo thriller. Gialli. Adesso ne sto leggendone uno - non mi ricordo il titolo, se vuole vado su a vedere - e mi piace particolarmente perché è un legal thriller. Che è un genere che adoro».

E di scrittori italiani? Ne legge qualcuno?
«Non leggo nessuno. Solo autori stranieri, mai italiani».

Uno dei suoi scrittori preferiti è Stephen King.
«Assolutamente. Horror-thriller, fantasy-thriller, c’è sempre una base thriller. Ma in generale, se non c’è un mistero da chiarire, o un assassino da scoprire, non sono contento».

E a parte i gialli, lei è anche un grande appassionato di film.
«Li guardo tutti...»

E di serie tv, invece?
«Di serie tv ne ho viste parecchie e mi sono piaciute un po’ tutte. L’ultima, eccezionale e bellissima, è “Stranger Things”».

Le è piaciuta? Perché?
«Be’, è un omaggio agli autori. Primo fra tutti Spielberg, che è saccheggiato, e poi Stephen King».

Dicono che la seconda stagione si rifarà molto a James Cameron e al suo “Terminator”.
«Ah sì? Bene».

Omaggi e rimandi non mancavano - e non mancano oggi - nemmeno in Dylan Dog.
«Magari non volutamente, ma era la mia cultura. E allora, come oggi, ho sempre copiato a destra e a manca. Qualcuno dice citato. La realtà è che ho copiato. Per esempio “Terminator” l’ho rifatto pari pari. Erano i film che mi piacevano, i libri che mi piacevano... È impossibile non metterli nel tuo lavoro».

E a proposito di cose che le piacevano, anche il nome di Dylan viene da un poeta che apprezzava molto.
«Il nome Dylan suona bene. E poi io ho avuto una passione per Dylan Thomas e per le sue poesie, anche se in generale non leggo poesie e non le capisco; le sue però sì. E poi soprattutto il personaggio, il poeta, lo sentivo molto vicino a me: alcolizzato, dannato... queste cose qui. Io non sono dannato, però».

Perché ha deciso di ambientare le storie di Dylan Dog a Londra?
«Questa è stata una scelta - devo dire - non mia. Nella prima proposta che avevo fatto, per la nuova serie horror, Dylan in realtà era un detective solitario, senza spalla comica, in America. E poteva essere molto hard boiled. Non che io ami tantissimo questo genere. Ma era un po’ così».

Poi che cosa è successo?
«Poi discutendone con Bonelli, si è deciso di cambiare. Anche perché in America, a New York, c’era già Martin Mystère, e ci sarebbe stato un conflitto. E comunque l’Inghilterra è un po’ la patria dell’horror, dei fantasmi, di queste cose... Ha una tradizione antica, per cui io sono stato d’accordo con lo spostamento».

E Groucho?
«Abbiamo deciso di dare a Dylan una spalla comica perché altrimenti avrebbe dovuto pensare in ogni momento delle indagini. E sarebbe stato noioso. Invece se c’è un’altra persona, anche se folle come Groucho, è più piacevole da leggere».

Inflazionatissima citazione di Dylan Dog è: “I mostri siamo noi”.
«Non parlo per gli altri, ma fin dall’inizio io non mi identificavo né con Dylan, né con Groucho. Io ero i mostri. Per un affetto che viene dall’infanzia per i freak e per gli sfortunati, diciamo così».

Insieme alla passione per i freak, viene da lontano anche quella per la scrittura. Ha cominciato giovanissimo.
«In seconda media ho scritto un romanzo western. E siccome avevo letto tutti i libri di Fleming e ne volevo ancora, mi sono scritto un James Bond».

Ha mai pensato di rimettere mano a uno di questi romanzi?
«No, sono andati persi. Quello delle medie se l’è tenuto la mia professoressa. Non ce l’ho più. (ride)».

Magari lo pubblicherà lei...
«No, sarà morta ormai. Guardi che io sono vecchio! (ride)».

E una serie tv su Dylan Dog le piacerebbe? Potrebbe essere la nostra “Stranger Things”.
«Dipende da come è fatta. Può essere fatta molto bene. La situazione adesso però è in stallo. I diritti di Dylan sono sempre degli americani. So che alla Bonelli stanno cercando di ricomprarli».

Lei è un appassionato di musica, in particolare di Francesco Guccini.
«Guccini è un mio idolo. Unilateralmente è un mio amico. Lui non lo sa, ma io sì. E per me è davvero un grande amico».

Anche Guccini dice di essersi ritirato.
«Devo dire che ha un po’ più di anni di me, ne ha 76, e non è insolito che uno a quest’età dica che non farà più dischi. In ogni caso ha detto che continuerà a scrivere. Libri, se ho capito bene. Quindi non è per niente in pensione. E ha anche detto che magari scriverà altre canzoni».

Magari un romanzo lo scriverà anche lei. Magari, con una prefazione di Guccini.
«No, con i romanzi (dopo “Non è successo niente”, ndr) ho chiuso per sempre».

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