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Cultura
gennaio, 2017

Shyamalan: «Il mio dio fa paura»

La fantascienza? Una religione meno pericolosa delle altre. Il sovrannaturale? Aiuta a raccontare la realtà. Il regista di “The Village” e “Il sesto senso” torna a provocare con 'Split'. Con un thriller su un aguzzino inafferrabile. Che nasconde ventitré diverse identità

Nell’ultimo film di Night Shyamalan, tre ragazze vengono rapite e tenute prigioniere. Ben presto si rendono conto che il loro carnefice ha una caratteristica davvero particolare. A volte parla con una voce fredda e omicida, a volte si presenta vestito da donna, a volte si comporta come un bambino. Ha una personalità multipla. Ha ben 23 identità. Alcune di esse sono brave persone, altre neanche un po’. Riusciranno le ragazze a farsi aiutare da quelle sue personalità che non hanno nulla a che fare con i suoi propositi maniacali e psicotici per fuggire dalla prigione sotterranea in cui sono sequestrate? È ciò che racconta questo thriller che sarà nelle nostre sale il 26 gennaio, “Split”, diretto dal regista che da “Il sesto senso” (1999) a “The visit” (2014) ha saputo trovare vie d’accesso segrete alle nostre più misteriose paure e fantasie. Che sono anche le sue: è ciò di cui ha parlato a lungo, con L’Espresso, in esclusiva.

«Quello delle personalità multiple è un disturbo che mi ha sempre affascinato. Ciò che mi attira è proprio il fatto che questi soggetti abbiano diverse identità completamente isolate che coabitano insieme come in compartimenti stagni. Sono capaci di passare da una all’altra senza che si condizionino o contaminino». È una descrizione che a tutti farebbe pensare alla mancanza di empatia che caratterizza i terroristi, alla loro capacità di essere contemporaneamente amici o colleghi affettuosi e assassini spietati: a tutti tranne che a Shyamalan, che ha sempre negato ogni legame tra la comunità da incubo di “The village” e la chiusura degli Usa dopo gli attentati dell’11 settembre. E infatti lui preferisce parlare di basket: «Per certi versi è una dote straordinaria come la capacità di un Michael Jordan di mirare al canestro senza pensare al fatto che ci sono 20 milioni di persone che lo guardano: essere completamente assorbiti da una identità che non può essere alterata da nulla. Non è qualcosa che somiglia ad una sorta di superpotere? “Split” è un film su persone che hanno subito danni importanti nella loro vita e ciò li porta a forme di compensazione inaspettate».
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Persone che hanno subito danni importanti: se penso a film come “Il sesto senso” o “The Village”, potremmo dire forse che è uno dei temi costanti del suo cinema.
«Ciò che mi interessa davvero è il fatto che queste persone passino attraverso traumi così forti che superarli significa inevitabilmente affrontare un cambiamento radicale come una rinascita. Sono come delle fenici che devono rinascere dalle proprie ceneri».
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Lei ha avuto grande successo con un cinema capace di fenomenali colpi di scena. Anche questo suo film ha una sorpresa finale destinata a lasciare a bocca aperta tutti gli spettatori che conoscano un po’ i suoi film. Eppure ho visto che nelle interviste non ama essere ricordato per questa sua vena da thriller.
«Sono uno che fa film “di paura”? Sì e no. “Unbreakable”, per esempio, non lo era. Eppure aveva una rivelazione imprevedibile. Voglio dire: quando scrivo e faccio un film non penso: “Come farò stavolta a spiazzare lo spettatore”, ma: “Qual è il modo migliore per raccontare questa storia?”. Se faccio un film con Tom Cruise allora dovrò pensare ad una decina di scene d’ azione di cui è protagonista e poi capire che forma dare a quel personaggio. E questo per me non è possibile, anche se ci sono altri molto bravi nel farlo. Io, invece, ho bisogno di un personaggio al cui servizio sia una storia. Ciò che lei chiama colpo di scena o “twist”, è il modo in cui la struttura di una storia rivela ciò che davvero di originale e interessante c’è in un personaggio – che è ciò che mi ha portato fino a lì».

Possiamo dire che “Split” è il film in cui lei esplora più profondamente la femminilità nel suo mix di tratti: la vulnerabilità fisica, la fragilità ma anche la tenacia e la resistenza?
«Mi fa piacere che lo dica. Ho una figlia che ha la stessa età delle ragazze rapite ed ho un trasporto particolare per Casey, la ragazza che ha subito abusi da piccola e che viene, in qualche modo, rapita per errore. Il film si lascia condurre per buona parte dal suo sguardo. Il ruolo del protagonista invece richiedeva empatia, fisicità, humour, vulnerabilità e ambizione, senza l’aiuto di precedenti o di persone reali cui ispirarsi. Io ho scritto tutte e 23 le identità come se fossero davvero personaggi diversi. James McAvoy ha dovuto interpretarli come tali e per ognuno ha interiorizzato tratti caratteristici, motivazioni, biografia: ognuno di essi doveva essere verosimile come carattere».

Spiritualità, sovrannaturale, mistero. I suoi film, anche quelli più vicini al mainstream, non rinunciano a toccare tematiche che sembrano estranee al puro intrattenimento.
«Ho usato figure e caratteri tipici dei film e della letteratura di genere (fantasmi, alieni, supereroi) come strumenti per una conversazione intorno alla fede. Invece di ricorrere al credo e al linguaggio delle religioni tradizionali come il cattolicesimo e l’islam, io sto cercando di usare ad esempio la fantascienza come religione, per cercare di capire cosa vuol dire che qualcuno creda davvero nell’esistenza di qualcosa di diverso da ciò che ci circonda. In questo modo, avviare una conversazione sulla fede è molto bello. Chiedere a qualcuno se crede davvero che un alieno possa atterrare nel suo cortile significa affrontare l’idea stessa della fede senza che ciò diventi pericoloso o dogmatico come quando le religioni si affrontano».

Davvero lei ha iniziato a scrivere film a 10 anni?
«A quell’età ho iniziato a fare dei cortometraggi ma francamente non parlerei di scrittura. Roba tipo: “Una ragazzina corre urlando verso una foresta”. Erano dei puri tentativi di imitazione da “Guerre stellari” a James Bond. Più che di scrittura parlerei di furti!».

E i suoi genitori hanno fatto di tutto perché lei rinunciasse al cinema e seguisse le loro orme, diventando un medico?
«Quando i miei primi film non hanno avuto alcun successo, hanno sperato che questo fosse sufficiente a farmi cambiare idea, ma non è stato così. Ora però mio padre è molto orgoglioso. E quando fa un acquisto e le persone vedono il suo nome sulla carta di credito, e qualcuno gli chiede se è un mio parente, allora risponde con malcelata vanità: Sì, è mio figlio».

Uno sconosciuto seduto sul letto che la aspetta nella sua stanza: è il tipo di immagine inquietante che ha segnato la sua infanzia e il film che l’ha rivelata al pubblico, “Il sesto senso”. Ci racconta come nacque?
«In realtà successe che ritornammo a casa io, i miei genitori e mia sorella, e trovammo la porta della nostra casa semiaperta. Eravamo gelati dalla paura. Mio padre, la persona meno adatta ad uno scontro fisico che io conosca, e il nostro cane, che non avevo mai visto aggredire nessuno, entrarono in casa per ispezionarla. Era più una scena da commedia che da horror però avevo sette anni e ricordo di aver provato un terrore pazzesco in quel momento. Iniziai a pensare che ci fosse qualcuno che nel buio e nel silenzio attendesse ognuno di noi nella nostre stanze. In realtà, non c’era nessuno: la porta, per un qualche impedimento sulla soglia, non si era chiusa bene. Da allora, quell’immagine iniziò a lavorare in me fino a diventare la scena dell’incontro di Bruce Willis col bambino protagonista del “Sesto senso”».

Succede spesso che lei reciti piccole parti nei suoi film, a volte vestendo i panni del medico.
«Fare un film per me è un unico movimento: scrivere, dirigere, montare. Ma sento il bisogno di contribuirvi in modo ancor più personale. Del resto il mio aspetto, che è tipicamente indiano per tratti e colori, mi renderebbe una scelta di cast inusuale e sospetta se facessi il vicino di casa o un familiare. Per questo non posso fare né l’amico del protagonista né il ragazzo dell’ascensore».

È vero che era molto timido e introverso da ragazzo ?
«Sì, in un modo davvero penoso. Ciò che mi ha cambiato la vita è stato iniziare a partecipare a delle gare di discorsi dal vivo. Ce ne erano all’epoca. Dovevi scrivere un discorso e poi leggerlo in pubblico. Ero terrorizzato da una cosa del genere. Ma proprio questo, in qualche modo, mi ha spinto a farlo. Se non avessi fatto questo, imparando all’età di12 anni circa come parlare agli altri e affrontare le mie paure, forse non avrei neanche affrontato la carriera di regista».

Può parlare dell’associazione filantropica che ha fondato insieme a sua moglie e che ha modalità di intervento non usuali?
«C’è bisogno, in una determinata comunità, di una scuola, di un pozzo, di un generatore elettrico, di un bus che impedisca agli studenti di essere aggrediti o vigili su tentativi di violenze sessuali? Allora chiediamo direttamente alla nostra associazione, una sorta di fondo di investimento filantropico, di contribuire economicamente, così gli investitori possono vedere direttamente i risultati della loro generosità. Non è vero che non si possa fare niente per cambiare il mondo. È una rete di persone che fanno cose per certi versi straordinarie in un contesto normale. Un po’ come i supereroi».

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