Haley è una ragazza americana di 18 anni. Non fuma, non beve, vive relazioni sentimentali sporadiche. Perché non si fida: troppo pericoloso ubriacarsi, fare sesso, perdere il controllo. Harrison è di tre anni più grande, frequenta l’università e anche lui non ha alcuna intenzione di fidanzarsi. Meglio concentrarsi sullo studio, la carriera, gli amici, piuttostoche impegnarsi in una storia che distrae dai veri obiettivi. Di anni invece ne ha diciassette Azar, ma ne dimostra quattordici: la ragazza adora la popstar Taylor Swift, Harry Potter e non pensa neppure lontanamente di prendere la patente anche se ha l’età giusta, perché la allontanerebbe dai genitori.
Esempi estemporanei, vicende dal valore simbolico che potrebbero restare casi isolati, lasciare il tempo che trovano, se non fosse che la psicologa americana Jean M. Twenge, docente all’università di San Diego e già autrice del fortunato saggio “Generation Me” (Excelsior 1881), intorno a queste storie ha costruito un libro ben documentato da statistiche, decine di interviste e sondaggi che hanno coinvolto 11 milioni di ragazzi in ogni angolo degli Stati Uniti. Si intitola “iGen” (Simon & Schuster editore) l’affresco della generazione Q, dove “q” sta per quadrata, con la testa sulle spalle.
Dal saggio emerge un quadro allarmante e al tempo stesso sorprendente, che si può riscontrare anche Italia: oggi i giovanissimi nati tra il 1995 e il 2012 socializzano quasi esclusivamente attraverso gli smartphone, sono ossessionati dalla sicurezza proprio perché figli della crisi che ha ucciso le certezze, sono tolleranti, narcisisti, ansiosi e diffidenti, un po’ bacchettoni, decisamente meno ribelli rispetto ai genitori e anche rispetto ai cugini più grandi, tendenzialmente infelici e depressi, escono poco da soli, rifiutano le diseguaglianze. E, soprattutto, diventano adulti senza fretta. Per loro l’indipendenza non è una priorità, quando arriva arriva. Anche le ore dedicate ai lavoretti negli anni della grande crisi sono diminuite in maniera drastica, con la conseguenza che i ragazzi non hanno quasi mai un budget proprio da gestire ma devono chiedere aiuto a mamma e papà per comprare qualsiasi cosa.
«Un diciottenne di oggi sembra e si comporta come un quindicenne di qualche anno fa», sostiene Twenge, che da un quarto di secolo studia l’evoluzione dei teenager. «Questa è la prima generazione che trascorre l’intera adolescenza con lo smartphone. Una situazione che produce effetti a catena sul benessere dei ragazzi, sulle loro interazioni sociali e sul loro modo di pensare», aggiunge la professoressa, puntando l’indice contro l’uso dilagante dei telefonini, che in pochi anni hanno inciso sulla psicologia degli adolescenti a tal punto da rendere i figli dell’ultima generazione più vulnerabili dei Millennials. «Non è esagerato affermare che i giovani della “iGen” sono sull’orlo della più grave crisi della salute mentale degli ultimi decenni. Le ragioni sono custodite nei loro smartphone», aggiunge Twenge. È uscito da poche settimane il libro, e sta già facendo discutere.
«Gli smartphone hanno distrutto una generazione?», si intitola così il lungo articolo della rivista americana The Atlantic firmato dalla psicologa, che ha acceso un vespaio di polemiche sul ruolo dei social media, criminalizzati oltre ogni misura. E ha offerto la sponda ad alcuni esponenti conservatori americani, che accusano la tecnologia di essere responsabile del degrado morale dei giovani d’oggi. Inoltre un professore di Oxford, Andrew Przybylski, dopo aver letto l’articolo ha stroncato il saggio della psicologa americana, definendolo su Twitter «uno studio non sistematico e sciatto per alimentare il conflitto tra generazioni». Critiche che l’autrice ha rinviato al mittente. Una cosa è certa: questo studio è un formidabile strumento per gli esperti di marketing, chiamati a immaginare prodotti e strategie in base alle inclinazioni dei clienti in erba.
Sono al centro del dibattito culturale i più giovani, i Millennials e i loro fratelli minori. Mai così studiati, scandagliati, messi sotto i riflettori. Se ne parla anche a Pordenonelegge (13-17 settembre), a cominciare dall’incontro sul senso della formazione con Giovanni Lo Storto, direttore generale della Luiss, e con l’economista francese Jean-Paul Fitoussi. Dialogheranno tra loro e con il pubblico sul significato dell’essere studenti oggi, in un orizzonte estremamente largo di informazioni e nozioni, in cui gli strumenti tradizionali non bastano più e gli studenti sono abituati a ricercare da soli le risposte alle proprie domande.
Inoltre, per rafforzare il dialogo tra adulti e ragazzi c’è chi ha scelto lo stile epistolare, in due volumi in uscita per Mondadori e in anteprima a Pordenonelegge. Anzitutto Aldo Cazzullo, inviato e editorialista del Corriere della Sera, nel suo libro “Metti via quel cellulare. Un padre, due figli. Una rivoluzione” cerca di coniugare le ragioni della rivoluzione digitale con il gusto per la vita reale (domenica 17 settembre). E poi l’agroeconomista Andrea Segrè, docente alle università di Bologna e di Trento, fondatore del movimento “spreco zero”, che presenterà (sabato 16 settembre) “Il gusto delle cose giuste. Lettera alla generazione Z”, un manifesto per la “iGeneration” in cerca del proprio futuro e di maestri in grado di indicare una strada, una prospettiva in un mondo in cui le opportunità scarseggiano. In un paese, l’Italia, in cui la quota di ragazzi che non studiano e non lavorano - i famosi Neet, per intenderci - è la più elevata tra gli Stati dell’Unione europea: il 24,3 per cento contro una media del 14,2 per cento. E dove i giovani diventano autonomi sempre più tardi: se un ragazzo di 20 anni nel 2004 impiegava dieci anni per costruire la propria indipendenza, fa notare il professore, nel 2020 ne impiegherà diciotto, arrivando a 38 anni, e nel 2030 addirittura ventotto. «Con questo meccanismo verrà a crearsi un esercito di giovani-non giovani - o di adulti-non-adulti, dipende da che prospettiva si guarda - vittime della disequità intergenerazionale che in Italia è una ferita sempre più difficile da curare», dice Segrè.
La sua lettera cerca di offrire risposte e si pone come riferimento di un nuovo “dolce stilmedio” basato sull’equilibrio e la cura degli altri, la sostenibilità ecologica e la circolarità dell’economia. «L’idea della lettera nasce dall’esperienza concreta, dopo 25 anni di insegnamento. Ed è lo strumento più diretto per rivolgermi ai giovani», dice il professore, che descrive così questa generazione: «Sono loro i veri nativi digitali. Non ricordano nemmeno un mondo senza smartphone, sono i maghi del touch ma hanno difficoltà quando si tratta di entrare veramente in contatto con qualcuno, sono sempre connessi ma esitanti nella socializzazione. Pensano che Facebook sia una cosa per vecchi e usano solo i social network istantanei come Snapchat o Viber, tanto sono gelosi della loro privacy».
Si rivolge ai ragazzi della “gioventù quadrata” Segrè, che è anche presidente della Fondazione Fico per l’educazione alimentare e la sostenibilità, a Bologna. Motivo per cui, nella strada per raggiungere «lo stilmedio in dieci mosse», indica come punto di partenza il “cibo medio” tra quello spadellato dallo chef stellato e lo snack confezionato della macchinetta automatica, il cibo del “Mediterraneus”, «il mare in mezzo alle terre». La dieta mediterranea, insomma. E dall’alimentazione il professore allarga il discorso alle altre sfere dell’esistenza: la ricerca del normale, dell’ordinario, del regolare, della moderazione. Il rispetto dei limiti e delle proporzioni, il riconoscimento del dono e della reciprocità, il rispetto dell’etica e della responsabilità, il riconoscimento della diversità e della comunità, il rispetto della dignità e del lavoro. I valori fondanti del dolce “stilmedio”, che a prima vista rischia di sacrificare lo slancio ideale, il sogno. Nel percorso di Segrè, invece, il punto di arrivo è l’utopia, l’utopia concreta. E per dare sostanza alla propria intuizione cita Eduardo Galeano dal suo “Parole in cammino”: «L’utopia è là nell’orizzonte. Mi avvicino di due passi e lei si distanzia di due passi. Cammino dieci passi e l’orizzonte corre dieci passi. Per tanto che cammini non lo raggiungerò mai. A che serve l’utopia? Serve per questo: perché io non smetta mai di camminare».