«Amai teneramente dei dolcissimi amanti/ senza che essi sapessero mai nulla. E su questi intessei tele di ragno/ e fui preda della mia stessa materia./ In me l’anima c’era della meretrice / della santa della sanguinaria e dell’ipocrita. Molti diedero al mio modo di vivere un nome/ e fui soltanto una isterica». Questo il ritratto che Alda Merini fa di se stessa nella raccolta "La Gazza Ladra – Venti ritratti", dove la poetessa dei Navigli “tracciò” in poesia i lineamenti di diversi amici e poeti che aveva letto e ammirato, da Saffo a Sylvia Plath a Giorgio Manganelli. E proprio con Manganelli, Alda Merini ebbe una relazione quando ancora era adolescente. Lui era sposato e con figli, lei poco più che quindicenne, appena entrata nel salotto buono della Milano del Dopoguerra.
Alda Merini – nata a Milano «il 21 a primavera» del 1931 è scomparsa dieci anni fa. La sua casa, per chi ebbe la fortuna di entrarci – bisognava chiedere un appuntamento diverse settimane prima e non era nemmeno detto che Alda si facesse trovare - era un bailamme di oggetti, carte, poesie e appunti scritti ovunque – anche sui muri o sulla porta di casa. Ma proprio lei – da molti giudicata in modo semplicistico e ingiusto “la matta” del Naviglio – ci ha lasciato alcune tra le più belle poesie di vita e d’amore del Novecento. Non vinse mai il Nobel, pur avendo il sostegno e il supporto di alcuni tra i maggiori scrittori italiani come Salvatore Quasimodo, Pier Paolo Pasolini, Giovanni Raboni, Giorgio Manganelli o intellettuali ed editori come Vanni Scheiwiller o Giacinto Spagnoletti.
Per ricordarla abbiamo incontrato la figlia Emanuela – nata dal primo matrimonio di Alda Merini con Ettore Carniti, un imprenditore milanese nel settore della panificazione – che ha da poco dato alle stampe un libro di memorie dal titolo “Alda Merini, mia madre” (edizioni Manni).
La maledizione della poesia.
La voce di Emanuela è gentile, ha in sé quella dolcezza del timbro che inevitabilmente richiama alla memoria le tante interviste che Alda Merini concesse a Gigi Marzullo, a Maurizio Costanzo e ad altri, negli ultimi anni della sua vita. «Non è semplice per me parlare di mia madre», ci dice Emanuela. «Una figlia è solo un tassello dei tanti rapporti che una persona ha con il mondo esterno, ma per come la conoscevo io, da figlia, posso dire che nostra madre era difficile, bella, complicata, sfaccettata, fantastica. Custodiva in sé tante personalità e colori diversi. Posso dire che aveva la maledizione della poesia: la parola, la poesia, da un lato la salvava e dall’altro era qualcosa che si portava dentro e che la divorava».
La Terra Santa.
Alda Merini inizia a scrivere giovanissima. Appena quindicenne rischia di farsi licenziare dallo studio notarile milanese in cui era stata assunta come segretaria perché sorpresa a digitare versi sulla macchina da scrivere dell’ufficio. Quando il capoufficio le chiede cosa stesse battendo sui tasti, sul foglio c’era questa poesia, dedicata alla Vergine: «Non avete veduto le farfalle / con che leggera grazia / sfiorano le corolle in primavera? / Con pari leggerezza / limpido aleggia sulle cose tutte / lo sguardo della vergine sorella. / Non avete veduto quand’è notte / le vergognose stelle / avanzare la luce e ritirarla? / Così, timidamente, la parola / varca la soglia / del suo labbro al silenzio costumato. / Non ha forma la veste ch’essa porta, / la luce che ne filtra / ne disperde i contorni. / Il suo bel volto / non si sa ove cominci, / il suo sorriso / ha la potenza di un abbraccio immenso».
Un componimento in cui si ritrovano in nuce tutti gli elementi della futura poetica della Merini: quel sentimento di amore profondo e la metafisica personale che svilupperà una volta uscita dal manicomio. E proprio l’esperienza dell’ospedale psichiatrico, lunga oltre dieci anni, verrà trasposta nella silloge “La Terra Santa”, in cui riecheggiano elementi sacri come il Monte Sinai, il Cristo, le leggi, che parlano però di uno spazio “altro” – il manicomio, appunto – dove «il delirio diventa eco / l’anonimità misura / il manicomio è il monte Sinai, / maledetto, su cui tu ricevi / le tavole di una legge / agli uomini sconosciuta».
Ed è sempre Emanuela Carniti a raccontarci come andò quel primo ricovero in ospedale: «Papà era andato a un funerale di un parente nella bergamasca, doveva rientrare la sera stessa ma per un qualche motivo non riuscì a tornare a casa. Ricevemmo una telefonata non ricordo da chi, non da lui, in cui ci dicevano che papà non sarebbe rientrato. All’epoca non esistevano i cellulari e con il passare delle ore mamma iniziò ad agitarsi sempre di più. La mattina successiva era chiaro a tutti che quando papà fosse tornato, sarebbe successo un putiferio. E così accadde». Non sapendo più come arginare la crisi della moglie, il marito chiama un’ambulanza. «Quando arrivarono i barellieri, noi figlie ci mandarono dalla portinaia. Ma sentivamo la mamma urlare per le scale». Era il 1965, Alda Merini sarebbe uscita dal manicomio definitivamente nel 1978.
Il manicomio.
Quel giorno è la stessa Alda Merini a ricordarlo e a raccontarlo nel libro “L’altra verità, diario di una diversa”: «Fui quindi internata a mia insaputa e io nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici perché non li avevo mai veduti, quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso quando mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica ad uscire. La sera vennero abbassate le sbarre di protezione e si produsse un caos infernale. Dai miei visceri partì un urlo lancinante, una invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e a calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti. […] Il manicomio era saturo di fortissimi odori. Molta gente orinava e defecava per terra. Dappertutto era il finimondo. Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o cantava sconce canzoni. Noi sole, io e la Z., sedevamo su di una pancaccia bassa, con le mani in grembo, gli occhi fissi e rassegnati e in cuore una folle paura di diventare come quelle là».
La macchina da scrivere.
E se da un lato la medicina non andava molto per il sottile – «le persone che oggi definiremmo ‘strane’ perché eccessivamente sensibili o complesse rispetto alla norma» spiega Emanuela, «all’epoca venivano internate senza farsi troppi problemi» – dall’altro Alda Merini sul suo cammino ha sempre incontrato “angeli custodi” che hanno compreso la sua complessità senza etichettarla come “follia”.
Già nei primi anni del Dopoguerra, quando la Merini entra nel salotto buono degli intellettuali milanesi, Giacinto Spagnoletti in una lettera scrive: «Lo psichiatra che la teneva in cura si è dimostrato scettico sui risultati di un anno e mezzo di psicanalisi ed elettroshock. L’ha dichiarata, a bruciapelo, inguaribile. E allora, vista questa situazione, ho pensato che sarebbe giusto, umanamente, intervenire con quello che ella ha di più suo, cioè con la poesia. Chissà che questo non serva di più che gli elettroshock». E più avanti, durante gli anni dell’internamento in manicomio, lo psichiatra che la tiene in cura, Enzo Gabrigi, mette a disposizione di Alda Merini il suo ufficio all’interno dell’ospedale psichiatrico e soprattutto la sua macchina da scrivere, nella convinzione che la Merini non sia folle ma “vittima” di un trauma interiore.
«Papà le chiese più volte perdono», ci racconta Emanuela, «lei credo che inizialmente gli fece scontare il ricovero forzato, poi però restarono insieme fino alla morte di lui. E sono sicura che nonostante tutto si amavano. Papà non era in grado di arginare la mamma, di sostenerla, e spesso delegava me, che ero la figlia maggiore. Papà era un uomo semplice, un gran lavoratore».
Senza una madre.
Ma il ricovero di Alda Merini sconvolge l’intera famiglia. Lo racconta ancora Emanuela nelle pagine del libro “Alda Merini, mia madre”: «Subito dopo il ricovero, intorno al giorno dei morti, il 2 novembre, papà portò me e mia sorella in un collegio fuori Milano. Mia sorella piangeva, io ero sconvolta, non piangevo, ero pur sempre la maggiore e non dovevo farmi vedere debole, ma ero sconvolta. Dopo qualche giorno venne a riprenderci: io andai per un periodo dalla zia Anna, mia sorella da una cugina che non aveva mai visto in vita sua. Poi papà ci portò tutte e due a Torino da Aldo Sormano, il vedovo della zia Candida […] Lì a Torino stavamo malissimo, dopo qualche giorno papà tornò e io pensai: “Finalmente ci porta a casa”, invece prese me e lasciò mia sorella. Forse io ero più grande e più facile da gestire, e anzi potevo dare una mano in casa, certo non mi spiegò nulla né io me la sentivo di chiedere, non c’era mica l’abitudine di far domande ai genitori; ma fu uno shock tremendo per me e per mia sorella».
E nel 1970 la Merini, su carta intestata dell’Istituto Ospedaliero Paolo Pini, scrive all’amico e intellettuale Vanni Scheiwiller: «Ma di questa prigionia non ne posso più, di queste sbarre, di questi cancelli chiusi mi sto letteralmente ammalando […] Spero tanto in un miracolo. E poi la lontananza dalla mia piccola Barbara che adesso è a balia presso persone estranee mi dà tanto male al cuore. …Vorrei piangere e non ne sono più capace, forse perché mi hanno praticato degli elettroshock che mi hanno fatto più male che bene. Non so, ma ho tanta paura di morire qui dentro senza veder più nulla, né sentire alcun fermento di poesia».
La seconda vita di Alda Merini.
Dopo la morte del primo marito e l’uscita dal manicomio, Alda Merini sposa in seconde nozze un poeta e medico tarantino, Michele Pierri, che aveva conosciuto alcuni anni prima. «Dopo la morte di nostra madre», prosegue Emanuela, «ci trovammo una bolletta del telefono da cinque milioni di lire: erano le chiamate che Alda faceva con Michele Pierri, un uomo con cui finalmente poteva tornare a parlare di poesia e letteratura. Quando conobbe Michele, per la mamma fu come essere tornata indietro all’epoca del salotto con Manganelli, Spagnoletti e Luzi: finalmente aveva incontrato qualcuno che le corrispondeva. In quegli ultimi anni con Michele, mamma fu davvero felice».
Di Alda Merini negli anni si è detto e scritto di tutto. C’è stato chi l’ha definita semplicemente una pazza, dalla poesia semplice, e chi invece ha saputo andare più a fondo, riconoscendo che pazza Alda Merini non era. Semmai la sua era una sensibilità molto forte, profonda, capace di trovare parole rare e vive per esprimere il mondo e la vita. Di tanto in tanto qualcuno va ancora alla ricerca di qualche scampolo di poesia per pubblicare l’ennesimo libro di “inediti”. Ma tanto – quasi tutto - è stato pubblicato negli anni scorsi e forse sarebbe il caso di non disturbare oltre la poetessa dei Navigli, lei che come pochi altri rivelò un’attenzione agli ultimi, ai sofferenti e agli emarginati. Dopo la morte del marito, in casa sua Merini accolse clochard, pittori e artisti senza il becco di un quattrino, persone che avevano vissuto la vita “dal basso”, che come lei avevano condiviso il dolore della caduta.
Alda Merini – conclude Emanuela nel libro edito da Manni – «dettava le poesie al telefono al primo che avesse una voce di cui si invaghiva, le affidava a foglietti volanti a chiunque passando a trovarla si definisse editore, mandava varie stesure dello stesso componimento a persone differenti, e ora mancano tanti tasselli. Dobbiamo rassegnarci al fatto che non potremo mai avere il polso di tutto quello che di suo c’è in giro, e quanto sia tutto autentico. Però è stata anche la sua bellezza, la sua forza, quella generosità senza argini».