La famiglia Atías dal 1948 agli anni ’70. Un graphic novel amato da Sepúlveda rievoca lotte e sogni di libertà

I mille giorni più belli del Cile

Per ragioni sia geografiche, sia sentimentali sia politiche, il Cile ha uno spazio nel nostro cervello e nel nostro cuore. Benché si trovi in fondo all’altro emisfero. Anzi proprio per quello. È la suggestione del luogo alla fine del mondo. Oltre, il ghiaccio e poi il nulla. Ha, quel Paese, il fascino nostalgico delle cose ultime, di una discarica di vite a perdere perciò tanto affascinanti, dell’altrove ai bordi dell’extraterrestre. Così lontano, così vicino.

Vicino lo sentimmo, soprattutto, nel 1973, quando con un colpo di Stato il generale Augusto Pinochet rovesciò il governo socialista democraticamente eletto di Salvador Allende, inaugurando la lunga e sanguinosa stagione della dittatura. Proprio quei giorni fatali chiudono “Là dove finisce la terra”, graphic novel di Désirée e Alain Frappier, che Add editore manda in libreria (255 pagine, 19,50 euro, traduzione dal francese di Silvia Manzio). Non sorprende che la prefazione sia firmata Luis Sepúlveda, il più famoso tra i cileni contemporanei, con un trasporto che denuncia la vicinanza e la condivisione della vicenda narrata. Non solo il golpe, ma il tragitto, dal 1948 agli anni ’70, della famiglia Atías, origini libanesi, vista attraverso gli occhi di Pedro, militante dell’estrema sinistra e figlio dello scrittore socialista Guillermo.

Presi da altre incombenze emergenziali, spesso ci dimentichiamo del Sudamerica. Salvo che il Sudamerica ci rientra in casa, come ora col Venezuela, a ricordarci intanto le radici europee di larga parte della popolazione e poi l’esperienza politica intrecciata di cui vicendevolmente si dovrebbe far tesoro. Non a caso, e con sagacia, la scrittrice Annie Ernaux ha scritto circa il volume rivolgendosi agli autori: «Un libro magnifico, dove l’intimo e il collettivo sono una cosa sola, di chiarezza esemplare. Siete custodi della memoria e la memoria del Cile deve essere viva come è stata all’epoca di cui voi scrivete».
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L’intimo e il collettivo. In altri tempi si diceva, «il personale è politico». Perché la commistione tra il destino individuale e la cosa pubblica è evidente quando, come in Cile, ci sono forze che tendono a schiacciare la libertà di pensiero, dunque a negare la piena dignità. Lo stesso Sepúlveda sostiene del resto che la felicità non è tale se non è condivisa. Un concetto che aleggia nel graphic novel, espressione di una comunità che si sente minacciata dal più ingombrante dei Paesi del Continente, gli Stati Uniti ovvio, e immagina che solo l’unità di intenti può riscattare e vincere l’incubo del vassallaggio. E anche questo rimanda alla stretta attualità. Alla quotidianità degli Atías, i problemi familiari, gli amori, il viaggio iniziatico con gli amici della scuola superiore, fanno da contrappunto gli eventi macro che fanno sentire i loro effetti anche laggiù alla fine del mondo. Il Vietnam, l’esperienza cruciale di Cuba, i colpi di Stato e la mano lunga della Cia, il Sessantotto col suo vento che da Parigi soffia fino all’Antartide. E dunque il Cile che si impone sulla scena, il successo della sinistra alle elezioni, il bagno di sangue. Ma, citando in sintesi la morale del libro, «prima della sconfitta c’è stata la vittoria che né la lava dei vulcani, né la profondità dell’Oceano Pacifico, né la sabbia del deserto di Atacama riusciranno mai a cancellare».

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