Un ex atleta e direttore della Federazione di tennis francese che dopo alcuni fallimentari filmini didattici destinati ai principianti realizzò una serie di ritratti dei grandi tennisti per catturare segreti e personalità di ognuno di loro. Non con i mezzi del biografo ma con quelli, non meno potenti, del cinema. Osservandoli a lungo, da vicino, e non nei momenti consacrati dalla tv.
Aperto da un ottimistico aforisma di Godard («il cinema, la letteratura e la politica possono mentire, lo sport no»), il film di Faraut cinge dunque d’assedio il grande mancino sui campi del Roland Garros spiandolo nei tempi morti, scomponendone i movimenti (meravigliosa la dissezione dei servizi di McEnroe, tecnicamente assurdi ma micidiali), o spiandone le reazioni spesso furiose. A danno non solo degli arbitri, ma - significativamente - di operatori e microfonisti (a uno di loro, peraltro impassibile, dice addirittura «ti prendo a racchettate sui denti»).
Faraut però non cerca di fare sensazione. Cerca il segreto di quel campione dai gesti perennemente contratti, mai un sorriso, mai un gesto per ingraziarsi il pubblico, al contrario, quasi che l’ostilità fosse «il suo carburante» (ancora Daney). Magari per scoprire che quel perfezionista con in corpo la rabbia e la voglia di vincere dei mingherlini era stato il modello del Mozart di Tom Hulce nell’“Amadeus” di Forman. Oppure che, come in un horror, anche sotto il Roland Garros c’è un cimitero: quella “stazione fisiologica” in cui a fine ’800 i pionieri del cinema Marey e Demeny catturavano i movimenti di uomini e cavalli con il loro fucile cronofotografico. Come per dirci che il match fra cinema e tennis non finisce mai.