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Se i giornalisti politici andassero più spesso al cinema molti di loro non sarebbero rimasti senza fiato quando Trump fu eletto presidente degli Stati Uniti. Per capire da che parte soffiava il vento, e che razza di risentimenti stavano fermentando nel ventre molle del paese, non c’era bisogno infatti di fare lunghi viaggi. Sarebbe bastato vedere i film di Roberto Minervini, un marchigiano giramondo ormai trapiantato a Houston, Texas, che da una decina d’anni sforna in tutta indipendenza documentari affilati e inesorabili girati nei luoghi più dimenticati d’America. Per cogliere verità profonde quanto invisibili grazie a un metodo di lavoro tutto suo che è molte cose insieme. Uno stile di vita, un modello di etica, un modo per fare film molto personali lasciando ai suoi soggetti massima libertà d’azione e di autorappresentazione.
Anche quando si tratta di tipi poco raccomandabili, come la setta di fanatici paramilitari che coniugano il culto delle armi con quello della famiglia e giocano alla guerra con fucili da assalto tra boschi e paludi nella seconda parte di “Louisiana, The Other Side”, il film che nel 2015 spaccò il festival di Cannes tra spettatori entusiasti e altri disturbati dalla crudezza di certi momenti anche molto intimi colti dall’obiettivo di Minervini.Il suo talento nello stabilire rapporti quasi familiari con i soggetti più disparati, del resto, non nasce per caso. Dietro i film di questo eterno ragazzo nato a Fermo nel 1970, oggi padre di due bambini, c’è un percorso di vita apparentemente caotico che a un secondo sguardo si rivela addirittura esemplare. Un lungo apprendistato che ha reso Minervini capace di entrare in sintonia con i redneck della Louisiana come con i cowboy ragazzini del Texas e con quella famiglia di cristiani fondamentalisti che erano al centro di “Stop The Pounding Heart”, viaggio inquieto e commosso nell’America rurale più segreta.
A sentire lui è solo questione di tempo e di rispetto. Le cose in realtà sono più complesse. Per catturare la vita degli altri bisogna entrarci dentro, mettersi in gioco. Così Minervini si porta dietro tutta la famiglia - la moglie, la cinoamericana Denise Ping Lee, è anche produttrice - e chiede ai membri della sua minitroupe di fare altrettanto.
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«Non è solo strategia. È una scelta di vita. La carriera di padre e quella di cineasta devono essere compatibili. Dunque giro quasi sempre d’estate, per i bambini è una specie di vacanza-lavoro, sul set giocano con i figli dei personaggi e un giorno magari vedranno i film di papà», ci dice da Londra, dove ha appena presentato il suo nuovo lavoro, “What You Gonna Do When the World’s on Fire” (il titolo viene dal verso di un vecchio spiritual), vertiginoso viaggio tra i neri della New Orleans post-Katrina, con alcuni membri delle nuove Black Panthers in videoconferenza dagli Usa.
La famiglia, nel senso più vasto del termine, è insomma la chiave del suo lavoro. Perché solo dentro i clan familiari si captano le vibrazioni più profonde del tempo. Anche se dentro queste “famiglie” più o meno transitorie e magari allargate in chiave quasi di comune, forse abitano memorie più personali.
«Chi lo sa. Certo vengo da un ambiente decisamente di sinistra», riprende Minervini. «Mio nonno si chiamava Soviet, anche se durante la guerra preferiva farsi chiamare Mario, sua sorella Idea. E i miei genitori, persone modeste, senza grandi studi alle spalle, avevano una compagnia di teatro amatoriale chiamata Voltiamo Pagina con cui rappresentavano Ionesco, “La cantatrice calva”, ricordo ancora mia madre fare la matta in scena».
Ma fra i ricordi d’infanzia ce ne sono altri che pesano. Su tutti quella gita a Roma nel 1980, Minervini aveva 10 anni, per andare ai funerali di Luigi Longo, lo storico segretario del Pci. «I miei piangevano a dirotto e io mi chiedevo perché tanto dolore per qualcuno che non avevo mai visto, e perché dovessimo passare tante ore in pullman e poi piangere col pugno alzato... Tutto questo però mi toccò profondamente, capii che per i miei l’amore andava al di là dei confini famigliari. Forse viene da lì questa ricerca d’integrità morale, la fedeltà nei confronti di un’idea, anche se allora ero solo geloso delle lacrime di mia madre».
L’ingresso nella vita adulta segue un copione più caotico ma alla fine coerente. Dopo gli studi di Economia e Commercio, Roberto parte con un Erasmus per Madrid e fa di tutto, l’assicuratore, il critico cinematografico, il producer discografico, il cantante punk rock «a petto nudo sul palco». In Spagna vive anche 2 mesi da senzatetto «grazie alla Croce rossa, con un tramezzino e un pacco di biscotti al giorno per sopravvivere», ma soprattutto incontra la futura moglie.
Anche se prima di arrivare alla regia progetta call center a Roma («ma ero volutamente inetto, non sopporto l’autorità e gli straordinari non pagati»), studia sempre a Roma con il regista esule ucraino Leonid Alekseychuk, «formidabile e troppo spesso dimenticato», quindi eccolo consulente finanziario a New York, dove dopo l’11 settembre perde il lavoro e con il rimborso ottenuto si paga un’altra scuola di cinema che lo porterà a insegnare nelle Filippine e infine in Texas, dove gira i suoi primi film.
Con un percorso così accidentato e insieme esemplare alle spalle si capisce l’attenzione per le comunità più impenetrabili e la capacità di stabilire con i suoi personaggi un rapporto di profonda intimità e coinvolgimento. Come si vede anche in “Che fare quando il mondo è in fiamme?”, nelle sale italiane dal 9 maggio in una versione leggermente diversa da quella in concorso a Venezia. Articolato su fronti di racconto paralleli, anche questo film nasce infatti da un’urgenza personale fusa a una potente intuizione politica.
I protagonisti appartengono a orizzonti distinti ma ricchi di echi e rimandi. C’è la carismatica Judy, una nera con sangue pellerossa che gestisce uno storico bar di Tremé, il più antico quartiere black di New Orleans, e cerca con disperata allegria di tenere insieme tutto, le canzoni, la memoria, la coesione della sua gente, le cure per la madre malata, quel locale pieno di musica e di storie che alla fine gli speculatori le porteranno via, il mitico Ooh Poo Pah Doo.
Ci sono Chief Kevin e gli indiani del Mardi Gras, che cuciono senza sosta gli sfarzosi abiti da cerimonia destinati alla festa più rappresentativa della straordinaria (e dimenticata) cultura meticcia nata negli stati del Sud con l’abolizione della schiavitù, quando neri e nativi americani incrociarono culture, sangue e destini. Ma ci sono anche le nuove Black Panthers, gruppo di autodifesa sorto sulle ceneri dello storico movimento anni Sessanta, che combattono la cultura della paura e dell’aggressione indagando su due omicidi razzisti verificatisi durante le riprese e subito rubricati come suicidi anche se una delle vittime era stata addirittura decapitata.
Per finire con la quarta pista del film, il piccolo romanzo di formazione dei due fratelli Ronaldo e Titus, 14 e 9 anni, che vagabondano per la città giocando e discutendo con una serietà e un’attenzione alle regole non scritte cui deve sottostare la loro gente che entrano davvero in risonanza con gli altri segmenti del film.
Altro che “Oscars So Black” e altre amenità hollywoodiane di moda, buone solo a illudere o a consolare. Il film così politico e insieme così musicale di Minervini, quasi un canone a più voci che intreccia i temi della miseria, della dignità e della resistenza, ci porta nelle zone più nascoste della comunità afro. Scoprendo microcosmi generalmente preclusi ai bianchi grazie a un lavoro certosino che non consiste solo nel farsi accettare. «Bisogna coinvolgere i personaggi nel processo creativo fin dal primo momento», spiega Minervini. «È ciò che chiamo osservazione controllata. Io mi limito a scegliere i luoghi e a cercare di capire cosa sta succedendo per accendere la macchina da presa al momento giusto. Passare più tempo possibile con loro, girare lo stretto indispensabile: questo è il principio. Solo così posso catturare certi momenti pazzeschi che sembrano impossibili da riprendere, ma sarebbero anche impossibili da ricostruire».
Chi ha visto certe scene d’amore e di droga di “Louisiana”, il lungo dialogo tra madre e figlia in “Stop the Pounding Heart”, o la scena dell’ultimo film in cui Judy consola la donna che racconta le violenze subite in casa fin da ragazza dicendole di drogarsi pure quanto vuole se questo la fa star meglio («Non esattamente uno di quei momenti che fanno spalancare la borsa ai finanziatori», sorride Minervini), sa di cosa stiamo parlando. Non si tratta di semplice fiducia nel regista. In questi momenti quasi intollerabili di verità appare qualcosa che è dell’ordine del sacro, un sacro tutto laico e aconfessionale, sia chiaro, che solo certo cinema del reale è in grado di cogliere, ma forse deve qualcosa anche al ruolo così particolare che il regista si è cucito addosso. Quello del testimone venuto da lontano che esplora un mondo segreto sfruttando i paradossali privilegi concessi allo “straniero”, ma sa anche mettere a frutto un’etica dei rapporti comune a tutta una nuova ondata di film-maker di estrazione documentaristica come Gianfranco Rosi, Pietro Marcello, Leonardo Di Costanzo o Michelangelo Frammartino.
È quello che nel bel libro dedicato da Dario Zonta a questa tendenza, marginale in termini di mercato ma di grande impatto culturale (“L’invenzione del reale”, Contrasto), Minervini definisce «lavorare in situazioni di urgenza, di necessità, di vita o di morte». Che non significa coltivare il gusto del rischio, ma «fare film solo quando sento il dovere morale di farli». Dandosi come «primo comandamento» (parole sue) proprio il «farsi da parte». Perché solo confondendosi con l’ambiente il cineasta può realizzare quel «passaggio del testimone» che è il vero obiettivo di Minervini. Dando a soggetti altrimenti invisibili la possibilità di rappresentarsi. Con tutta la bellezza e la profondità garantite appunto dal lavoro del regista.
Non sempre è così semplice, sul set e anche dopo. Proprio mentre Minervini era in tour in Europa, il maggiore dei due fratelli di “Che fare quando il mondo è in fiamme”, Ronaldo, è stato arrestato per aver rubato un paio di scarpe e trattato con la durezza riservata ai coloured, un colpo durissimo e insieme una triste conferma per il regista, che non abbandona i suoi personaggi nemmeno a film finito («ormai fanno parte della famiglia») ed è riuscito a trovargli un avvocato. Mentre tutto il blocco relativo ai Black Panthers è stato oggetto di lunghe trattative con la leader del gruppo, che non aveva mai dato a nessuno il permesso di riprenderli e voleva il massimo controllo.
Non basta: qualche solerte guardiano del politicamente corretto, in America, ha ben pensato di accusare Minervini di “cultural appropriation”, lo stigma con cui si bollano i temerari che ancora osano raccontare un sesso, una classe sociale, un gruppo etnico diverso dal loro. Non sarà certo questo a fermare un regista che proclama di voler «mettere in conto nel budget creativo il rischio, la paura, l’ignoto, il diverso, il pericoloso, il disgustoso, l’immorale, il dissonante». Ma potrebbe forse spingerlo a fare finalmente un film in Italia.
«Di offerte ne ricevo molte, tutte di finzione stranamente, da una parte e dall’altra dell’oceano. Mi hanno proposto di portare sullo schermo la biografia di Marvin Gaye così come di adattare un paio di premi Strega, ma non credo che accetterò. La finzione mi interessa, è un dispositivo potente, prima o poi ci proverò anche se ci sono sempre delle storie che mi chiamano nel mondo reale. Dovessi passare al cinema-cinema ho una storia della Resistenza al femminile che mi interessa, ne sto parlando con Maurizio Braucci», lo sceneggiatore napoletano. «Ma il primo problema sono i bambini. Dovrebbero passare almeno un anno in Italia. Vedremo, forse più in là».