Cultura
5 marzo, 2020

Con il nastro rosa, i 40 anni della canzone di Lucio Battisti che sfidò il futuro

Colloquio con Donato Zoppo, musicologo, autore di un libro dedicato al celebre brano del 1980 dell'album Una giornata uggiosa, l'ultimo scritto con Mogol. «Un altro talento della sua portata? È stato detto di tutto, oggi ci sono artisti di caratura media, che replicano l’esistente, senza pretese innovative»

"Lo scopriremo solo vivendo". Ci sono canzoni che sono entrate a far parte della nostra identità personale e collettiva non si sa bene come; difficile che qualcuno non l'abbia canticchiata o che non l'abbia inseguita, quella libellula in un prato. Per la serie grandi anniversari che segnano il nostro tempo, "Con il nastro rosa" di Lucio Battisti, che oggi avrebbe festeggiato i suoi settantasette anni, compie a sua volta quattro decenni di vita. Correva l'anno 1980 e fu l'ultima canzone dell'ultimo album ("Una giornata uggiosa") con Mogol. La fine di un'epoca, un futuro incerto e dal perimetro non calcolabile, in un curioso incastro tra la storia artistica dei due e la storia maiuscola in uno dei suoi grandi punti di svolta. Tra un Battisti concentrato sul futuro, su nuovi linguaggi e nuove formule musicali più attente ai suoni internazionali e un Giulio Rapetti impegnato a brigare nella gestione delle sue edizioni musicali, nel governo dei diritti d'autore e, in fondo, ancorato ad un mondo "antico" di scrittura.

L'Italia ancora sotto shock per la violenza dell'ondata terroristica e l'omicidio Moro, trovava nell'atlantismo filo americano un equilibrio instabile sotto le bandiere opposte del consolidando patto tra democristiani e socialisti da un lato e i comunisti rocciosi, dall'altro. Visioni gradualiste e visioni rivoluzionarie, un passo prima della Milano da bere, del benessere paninaro e le periferie urbane devastate da nuove povertà e tossicodipendenze. Il 1980 era un mondo in cui, ancora, si sarebbe potuto scegliere tra immagine e realtà, sottrarre il privato e tutto ciò che non riguardasse strettamente il proprio lavoro dal blatericcio scalmanato dei media e dei rotocalchi gossippari. «Devo distruggere l'immagine squallida e consumistica che mi hanno cucito addosso», dirà un Battisti sfinito dalla sua stessa icona, «non parlerò mai più, perché un artista deve comunicare solo per mezzo del suo lavoro. L'artista non esiste. Esiste la sua arte». Una posizione rigorosa e problematica che, absit iniuria, per le condizioni del mercato e delle produzioni attuali sarebbe semplicemente impensabile.

A fare il punto su quella canzone e su quella "fine di un sogno" è appena sbarcato negli scaffali "Con il nastro rosa" (GM edizioni), il nuovo libro di Donato Zoppo, giornalista e musicologo scrupoloso della storia del rock, che a Battisti aveva già dedicato una monografia qualche anno fa.

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Con il nastro rosa è una canzone piena di interrogativi irrisolti. Secondo lei cosa racconta ancora oggi del nostro tempo?
Mogol, da osservatore, ha offerto agli italiani dell'epoca uno specchio. I suoi testi, nonostante riflettano l'Italia di allora, sono ancora attuali perché riguardano dinamiche interiori che accomunano un po' tutti noi.
"Con il nastro rosa", rispetto alle sicurezze di un amore travolgente come quello di dieci anni prima, dell’"Avventura" per intenderci, sottolinea il timore per una relazione arrivata all'improvviso. La maturità dell'autore – e nostra, quando superiamo la giovinezza – sta tutta in quel "lo scopriremo solo vivendo" che non è rassegnazione, ma disponibilità a farsi stupire dal futuro.

Questo brano è del 1980. Lo stesso anno uscivano in Italia pezzi straordinari di Dalla, Battiato, Bennato. Perché ha scelto questo brano come “bandiera” di quell’anno?
Beh se dovessi scegliere un brano bandiera del 1980 forse andrei altrove: penso a "Futura" di Lucio Dalla, al Battiato di "Patriots" o a Ivan Graziani di "Firenze". E mi fermo. "Con il nastro rosa", però, sfida il tempo, è una canzone lanciata verso il futuro. Peraltro, è il pezzo più riuscito del disco perché è quello meno iperarrangiato, la sua forza è nell'essenza del groove, anticipa il Battisti che verrà con gli album bianchi. Un brano sospeso tra passato e futuro, tra la fine degli anni di piombo e l'inizio degli anni dell'edonismo, anche se Battisti ha scansato sia i valori dei primi che dei secondi. Solitario per definizione.

Nel libro è piuttosto critico verso le scelte di chiusura della vedova, Maria Grazia Veronese. E’ contento dell'esito legale che ha portato all’inserimento della musica di Battisti sulle piattaforme digitali?
Sono da sempre combattuto. Da una parte penso che il patrimonio battistiano debba essere ancora più conosciuto, quindi sono favorevole all'aggiornamento a fronte dei nuovi supporti. Dall'altra parte però mi chiedo, consapevole che Battisti avrebbe posto la stessa domanda: ma è così difficile comprare un disco e ascoltarlo? È così impegnativo fermarsi, sedersi, regalarsi quaranta minuti di tempo per gustarselo senza distrazioni? La storia della musica è anche storia dei suoi supporti, inutile ignorarlo; l'idea di Lucio era fortemente legata alla tangibilità dell'opera, ovviamente anche alla sua interezza, al non sminuzzarla via digitale. Resto nel dubbio...

Mette spesso l’accento sul tipo di produzione “artigianale” voluta da Battisti per la sua musica: meglio un’acciaccatura che la perdita di un’emozione. Secondo lei cosa si è perso oggi, in cui tutto è al pitch perfetto, in termini di comunicazione del sentimento?
Questa è una chiave importante dell'intero libro, sottolineata fortemente da Geoff Westley, produttore e arrangiatore di "Una giornata uggiosa". Nella conversazione che ho avuto con lui è emerso proprio questo: a Battisti interessava che la canzone emozionasse, scuotesse il mondo interiore dell'ascoltatore. Per ottenere questo risultato non puoi fingere, devi essere autentico. Lucio e Geoff lo sapevano bene e hanno lavorato sull'umanità della musica, non sulla sua perfezione artificiale. Detto ciò, le modalità di registrazione digitali non precludono per definizione l’autenticità; il discrimine è nella sincerità del musicista.

Oggi l’immagine e la dimensione privata degli artisti sono miniere intangibili per il business dell’industria musicale. Battisti, come noto, ha scelto il ritiro e di comparire solo attraverso la sua arte, un'opzione oggi preclusa. Cosa è successo in questi anni, per rendere coessenziale alla musica l’immagine?
La scelta di Battisti – ma anche di Mina – oggi sarebbe impensabile e suicida. Siamo nell'epoca della sovraesposizione via social, ma nel 1980 sopravviveva una giusta commistione di ingredienti musicali, testuali e visuali. Negli ultimi anni la progressiva crisi musicale ha lasciato emergere contenuti più ammiccanti e seducenti come l'immagine, tanto che, metti Achille Lauro, non c'è prevalenza dell'immagine sulla musica ma totale assorbimento della prima, che fagocita e ingloba. Di questo artista ricorderemo la tutina, non le canzoni, temo.
Invece, ammiro molto la scelta di Lucio, la sua progressiva sparizione incentrata sul primato della musica. L'ho sempre accostata a ciò che suggeriva Carmelo Bene: «Se si vuole cambiare qualcosa, bisogna cominciare a cambiare sé stessi, andare contro sé stessi fino in fondo. Il massimo impegno civile è l'auto-contestazione».

Battisti, lei scrive, era molto attento all’interlocuzione con il pubblico; in questo senso era “pop”. Nessuna ricerca elitaria o di ipertrofia tecnica nei suoi brani, perché la gente va coinvolta. Cosa ne è stato di quel modo di fare musica?
Attenzione, quel modo di fare pop paradossalmente resta in chi fa canzone d'autore, non di massa, perché si rivolge ancora a un pubblico di individui, non a una audience informe e magmatica.
Oggi nella maggior parte dei casi chi fa pop punta a sedurre, non a emozionare, a condizionare secondo le logiche dello psicopotere o neuropotere di cui sta parlando Stiegler in "La società automatica". Il pop di Battisti si rivolgeva alla massa ma con un'idea romantica, quella dell'emozione.

Crede che nelle condizioni di mercato attuale ci sarebbe lo spazio sufficiente per pescare fuori un altro talento del genere?
Distinguerei il mercato dalla musica. Dal punto di vista prettamente discografico, c'è un'alluvione di nuove uscite (faccio radio da una quindicina d'anni e sono letteralmente invaso da proposte), mancano del tutto le condizioni per ascoltare e scoprire nuovi clamorosi talenti. Non credo ci sia proprio il tempo per far sedimentare un disco e farlo diventare un classico, figuriamoci per cogliere la grandezza – che è un percorso in itinere, mai un dato cristallizzato e statico – di un nuovo artista. Dall'altra parte, sul versante musicale e compositivo, ho la sensazione che sia stato detto di tutto, quindi dobbiamo accontentarci a mio avviso di artisti di ottima caratura media, che replicano l’esistente, senza pretese innovative.

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