Cultura
ottobre, 2022

Kia Nobre: «Ecco come il cervello si adatta alle catastrofi»

Guerra, pandemia, emergenza climatica. Il nostro organo più complesso reagisce agli eventi tragici anticipando cosa potrebbe accadere. La grande neuroscienziata di Oxford spiega come

Il cervello è un meccanismo complesso, sorprendente, per certi aspetti sconvolgente. Che si adatta a eventi epocali e catastrofici come la guerra, la pandemia, la crisi climatica che spazza via case e vite umane. Anticipa i cambiamenti e prevede come questi fatti incidano in modo temporaneo o duraturo sul comportamento degli individui. Neuroscienziata di fama mondiale, Kia Nobre dirige l’Oxford Centre for Human Brain Activity, in Gran Bretagna, centro di ricerca di eccellenza sulle attività cerebrali, e ha appena ricevuto ad Amsterdam il premio C.L. de Carvalho-Heineken 2022 per le scienze cognitive. Di recente, in occasione de “Il Verde e il Blu Festival”, a Milano, manifestazione dedicata a innovazione digitale, energia e sostenibilità, ha condotto il talk “One Health-Innovazione e cura: come cambia l’approccio alla salute e al benessere” insieme a Luciano Floridi, docente di filosofia ed etica dell’informazione all’Oxford Internet Institute.

Che impatto hanno sulla psiche gli eventi catastrofici?
«Colpiscono il corpo e la mente, sono fenomeni molto complessi e mettono in gioco differenti fattori. Il Covid-19 è molto diverso dalla guerra in Ucraina, soprattutto per noi che non combattiamo. È una malattia che colpisce il nostro corpo con effetti diretti sul cervello. Grazie a studi su un numero elevato di pazienti, ora sappiamo che esiste un’ampia gamma di sintomi psicologici e psichiatrici associati al virus: stress, preoccupazioni, perdita di persone care. La guerra invece, per chi non la combatte direttamente, produce effetti indiretti come stress, paura e ansia, ma impatta anche sulla salute mentale e sul corpo. Per chi combatte, invece, causa altri tipi di danni: lesioni cerebrali traumatiche, lesioni fisiche traumatiche e disturbo da stress post-traumatico molto grave».

Secondo le stime riportate dalla rivista medico-scientifica The Lancet, per effetto della pandemia nel mondo si sono registrati circa 53 milioni di casi di depressione maggiore e 76 milioni di casi di ansia generalizzata in più. È un calcolo al ribasso?
«Sono molto felice che questo tema riceva attenzione, in passato sarebbe stato trascurato o banalizzato. Non è facile dire se si tratta di una stima al ribasso: probabilmente molte persone non sono in grado di segnalare i sintomi, per questo penso sia un calcolo prudente. In ogni caso, si registrano conseguenze psichiatriche e psicologiche molto gravi del Covid-19 su individui che l'hanno avuto, ma anche su chi non è stato contagiato ma ha sofferto di solitudine, privazione, perdita di socializzazione, ansia. Ma c'è un altro elemento finora trascurato: i cosiddetti “effetti cognitivi”. Se si subisce un danno cerebrale a causa del Covid, questo influisce anche sulle funzioni di base, che consentono di interagire con la realtà di tutti i giorni, e sulla capacità di concentrarsi, fondamentale per acquisire informazioni, imparare, memorizzare. Alcuni parlano di “nebbia cerebrale”, un effetto non ancora studiato, riconosciuto o quantificato malgrado sia importante. Basti pensare ai bambini e alla scuola».

Lei è una neuroscienziata di fama mondiale. Qual è l’approccio di questa disciplina nell’analisi delle reazioni adattative del cervello?
«Buona parte degli studi che abbiamo svolto nel mio laboratorio tendono a sottolineare come il cervello non sia un organo reattivo. Nei libri di testo e nella mente della maggior parte delle persone istruite si è fatta strada la convinzione che al primo livello esistono i sensi, poi i diversi elementi si aggregano nel cervello, infine prende forma una rappresentazione mentale. In base a questa concezione, coscienza e memoria sono il prodotto finale di un processo che si muove dall'esterno verso l'interno. Ma questo è vero solo a metà: il nostro cervello, infatti, è ricco di esperienze e le usa in modo adattativo per anticipare cosa potrebbe accadere, cosa potrebbe succedere di nuovo, prepara le aree sensoriali che raccolgono informazioni rilevanti per guidare il nostro comportamento. Quando tutto questo funziona bene è incredibile: non è il cervello ad acquisire dati dal mondo esterno, ma mette insieme esperienze e informazioni sensoriali dall’esterno per creare percezioni e ricordi, prendere decisioni. E lo fa in modo dinamico, anticipa i momenti, le cose: è un processo molto proattivo, davvero sorprendente, direi strabiliante».

Le reazioni cambiano a seconda dell’età o del genere?
«Sì, assolutamente. Cambiano a seconda dell’età, del sesso, del livello di istruzione. Sono fattori di un'equazione molto complessa: nessuno ancora comprende come plasmare la resilienza, i fattori protettivi e la vulnerabilità. Alcuni di questi elementi non sono biologici e fisiologici, ma culturali o dipendono dall’esposizione alla tecnologia. Anche se riscontriamo differenze tra uomini e donne, bambini e adulti, queste non vanno attribuite a fattori fisiologici o biologici ma devono essere studiate nel quadro complessivo dei dati esperienziali, genetici, fisiologici. Alcuni eventi catastrofici producono effetti molto acuti e gravi in termini di stress, ma il modo in cui gli esseri umani li affrontano varia in maniera sostanziale da persona a persona. Nel caso della guerra, alcuni soffriranno di disturbo da stress post-traumatico e non saranno mai in grado di superarlo, altri saranno resilienti e proveranno a comprendere i meccanismi che aiutano il cervello e la mente a superare le conseguenze a lungo termine».

Covid-19, guerra in Ucraina, crisi climatica. Qual è l’evento più grave?
«Metterei tutti e tre a un livello di “gravità grave”, ma hanno implicazioni diverse. Ritengo comunque che il cambiamento climatico sia l’evento più grave: una crisi estrema ma continua, persistente. Proprio per questo si tende ad affrontarla gradualmente, rimandandone la soluzione. E invece dobbiamo considerarla sia grave sia acuta. Avremmo dovuto farlo un po' di tempo fa, ovviamente».

Cosa possono fare la psichiatria e le neuroscienze?
«Non parlerei solo di psichiatria, ma della famiglia di discipline che riguardano la comprensione e il trattamento della mente umana - quindi psichiatria, neurologia e psicologia sperimentale. In primo luogo, dobbiamo smettere di stigmatizzare i problemi di salute mentale. Penso che la psichiatria e la psicologia stiano cercando di farlo e finalmente si cominciano a riconoscere le implicazioni sulla salute mentale del Covid-19, delle guerre, dei cambiamenti climatici».

Come può incidere la politica?
«Un ottimo passo sarebbe spendere più soldi per la salute mentale. Oggi, ad esempio, nel Regno Unito si stanno investendo ingenti risorse nelle neuroscienze e nella salute mentale. In passato, nonostante l’enorme peso di questo fattore sulla qualità della vita, gli investimenti sono stati irrisori in confronto alle malattie cardiovascolari o al cancro. C'è ancora molta strada da fare, ma ci stiamo muovendo nella direzione giusta».

L'edicola

Le radici culturali dell'Europa, antidoto al caos

Contro la crisi identitaria del Continente non c’è che uno sbocco: la riaffermazione dei valori comuni

La copertina del decimo numero: "Vieni avanti, straniero".