Gente che annaspa in scellerati equilibri di coppia. Ragazze sfinite da uno stronzo qualunque, amori senza possibilità di orizzonte, masochisti seriali, matrimoni infelici che vivono in replica, mentre gli anni passano. “Impantanati”, in una parola. Così profondamente, così scompostamente, da affondare e soffrire, senza riuscire a mettere la parola fine.
E se questi disamori si unissero, a reclamare un risarcimento per il loro cuore infortunato? Se tutti insieme proponessero una class action per danni da sinistri sentimentali, e si rivolgessero a Vincenzo Malinconico, l’avvocato più specializzato in instabilità della nostra narrativa? Con “Sono felice, dove ho sbagliato?” (Einaudi) Diego De Silva affronta un corale e contemporaneo tormento d’amore, che chiama in causa il senso del dolore, del piacere, dello stare insieme: della felicità.
A riflettere con lui è un altro amatissimo autore napoletano, Maurizio de Giovanni che, con “L’equazione del cuore” (Mondadori) e in molti altri romanzi, tocca temi analoghi: come si convive col dolore, qual è la strada che porta alla felicità. Ma è ancora legittimo, in un tempo come questo, invocare un diritto a essere felici, innato e inalienabile come quello scolpito nella Costituzione americana? Cominciamo da qui.
Diego De Silva: «È difficile dirlo: siamo nel cuore di una guerra che non avremmo dovuto vedere. La felicità è un diritto dell’essere umano. Ma credo che sia un incidente: ci accorgiamo di essere stati felici solo voltandoci indietro, ed è un momento meraviglioso. Perché la bellezza della felicità è proprio nella sua inafferrabilità: non puoi trattenerla. Certo, puoi crearne le condizioni. Ma la felicità è quell’attimo di piccolo splendore che dà senso alla vita, e si acquisisce sempre voltandosi indietro. Si è stati felici, secondo me, non si è».
Maurizio de Giovanni: «Sono d’accordissimo. Ma dobbiamo distinguere, dal punto di vista personale e relazionale. La felicità è una scatola di biscotti nella quale immergiamo le mani e dalla quale tiriamo fuori, alla rinfusa, vecchie fotografie. È guardando queste foto che capiamo di essere stati felici, senza che prima ne avessimo avuto la minima cognizione. La felicità relazionale, invece, che è una specie di equilibrio, va raggiunta con sacrificio e lotte. In questo momento c’è una guerra in corso, ma io allargherei lo sguardo agli ultimi venti anni: abbiamo vissuto il crollo delle Torri gemelle, una grave crisi economica, guerre in Afghanistan, in Siria, in Iraq, la pandemia e ora un conflitto nel cuore dell’Europa con milioni di profughi. La felicità relazionale è una condizione davvero molto complicata da immaginare».
E l’amore? Come condiziona la felicità?
MdG: «Non possiamo immaginarci felici senza l’amore, ma non possiamo neanche immaginarci infelici senza essere innamorati: è questa, credo, la grande indicazione che Diego dà nel suo libro».
L’amore condanna all’infelicità?
DDS: «L’innamoramento è quella fase della vita in cui una persona esce totalmente da se stessa e va incontro all’altro. Da un certo punto di vista è un disastro, perché diventi dipendente in maniera schifosa da un altro essere umano. Però questa condizione di debolezza, di esposizione, fa sì che tu capisca come sei fatto. Il che non è detto che sia proprio una bella scoperta…».
Ricapitoliamo: la felicità capita. Ha a che fare col passato. È parte integrante dell’amore, che contiene già il suo contrario. Dunque, come si riparano le ferite d’amore?
DDS: «Non si riparano, hanno un certo coefficiente di rimarginazione, ma rimangono e, paradossalmente, nel tempo arricchiscono. Le racconto una cosa. Io conosco bene il cantautore Samuele Bersani. Molto anni fa, quando una fidanzata lo lasciò, andò da Lucio Dalla col quale collaborava, e gli raccontò la sua sofferenza. Dalla gli disse: “Tu non devi fare l’errore standard di subire il dolore, devi capitalizzarlo. E gli fece sentire il motivo di “Canzone”. Bersani aggiunse le parole, e venne fuori un brano bellissimo: “Canzone… cercala se vuoi/ dille che non mi perda mai. Va’ per le strade tra la gente/diglielo veramente…”.
Certo: il dolore, per un artista, è fonte di creatività.
DDS: «Significa riconoscergli nobiltà. È per questo che Malinconico rifiuta una class action contro le pene d’amore. Gli infortunati sentimentali vorrebbero portare la loro sofferenza davanti a un giudice per farne oggetto di riconoscimento, esattamente come per qualunque infortunio. Malinconico è contrario perché pensa che il dolore sia inestimabile: il dolore ci spetta, ci riguarda. Personalmente sono convinto che sia una strada di conoscenza, che accompagna ogni vera esperienza di vita. Per questo non dobbiamo squalificarlo e dobbiamo invece esserne all’altezza: non bisogna sentire brutta musica, incafonirsi, diventare aggressivi. Cosa c’è di più volgare di un uomo che, mollato da una donna, la picchia? La deriva della violenza è la massima espressione di fallimento maschile: l’incapacità di essere all’altezza anche delle grandi sfide che la vita ti pone, come accettare che l’amore finisce, e che una persona sia libera in qualunque momento di dirti: “Io non ti amo più”. È questa la massima espressione dell’amore: la libertà di poter dire “io non ti amo più”. Ciò non significa che non sia stato vero, che non sia importante. È facile credere nell’amore quando va bene, molto più difficile farlo nella separazione, nell’umiliazione, nella sofferenza. Se, nonostante la fine o il tradimento, sei ancora capace di credere nell’amicizia, o nell’amore appunto, vuol dire che di fondo sei una persona capace di cambiare il mondo, almeno il tuo».
MdG: «L’amore lascia inevitabilmente delle ferite, non soltanto su chi è lasciato ma anche su chi ha lasciato o ha dovuto farlo. Più profondo è l’amore, più profonda è la ferita, più sarà visibile la cicatrice. E sarà anche bello, dopo, andare ad accarezzarsi quella ferita. Perché la verità è che le cose che sono state belle, le cose profonde, ti cambiano, in meglio, in peggio: non puoi farci niente. La perdita di una persona cara ti lascia cambiato: la superi, vai avanti, ma chi sopravvive non è la stessa persona di prima».
DDS: «È proprio così».
MdG: «Una perdita non è un’assenza, è un tipo diverso di compagnia. Ed è anche bello che lasci traccia, che resti l’eco di un dolore, vuol dire che ne valeva la pena. Che i segni di un amore, di un’amicizia, di una perdita restino sul corpo. Questi segni, alla fine, compongono una carta geografica di malinconie, nostalgie, dolori che è anche bello andare a rivisitare. Dolori o piaceri, a lungo andare, sono belli uguali».
A lungo andare, quando sei in grado di ristabilire il valore della sofferenza. Prima è facile restare “impantanati”. E sentire di aver subito un torto, come i personaggi di De Silva.
MdG: «Credo che in questo romanzo di Diego ci sia il miglior Malinconico di tutti».
DdS: «Wowwww».
MdG: «Davvero, ne sono rimasto incantato. Hai ritrovato la dimensione del racconto. Malinconico è una maschera, come Pulcinella, come Eduardo De Filippo, ma negli ultimi tempi si era un po’ rarefatto, diventando piuttosto un’occasione di riflessione. Con questo libro sei tornato al racconto. Gli “impantanati” vengono fuori con una tridimensionalità assoluta e portano a galla la parte oscura dell’amore: la condizione di rimanere legati a una persona, senza riuscire ad andare né avanti né indietro. Che è una condizione che abbiamo attraversato tutti, ammettiamolo: uno stato di sabbie mobili, in cui sai benissimo di affondare ma non hai l’energia per tirartene fuori. Dai la colpa all’altro, ma in realtà la colpa è tua. E questa trovata della storia è molto divertente. Io credo che a tutti dovrebbe essere riconosciuto non un diritto alla felicità, ma un diritto alla rincorsa alla felicità, essendo la felicità sostanzialmente una chimera. La voglia di questi personaggi di uscire dal pantano ma soltanto aiutati da altri, perché loro non sono affatto sicuri di volerne uscire, trovo che sia geniale».
Che cosa vi rende felici?
DdS: Io penso di aver avuto una gran fortuna, nella vita: di coincidere con il mestiere che ho scelto di fare. Grazie alla scrittura sono diventato me stesso, e questo mi dà felicità. E poi ci sono felicità durevoli: per esempio, vedere mia figlia che è diventata una giovane donna, e mi piace tantissimo. Ridere con lei mi rende molto felice. Per il resto, non saprei, la felicità è sempre successiva: non mi capita quasi mai, mentre sono felice, di accorgermene. Improvvisamente mi volto indietro e colgo uno strascico di felicità. Una cosa che ho capito invecchiando è che non c’è alcuna connessione tra periodi fortunati e felicità, cioè può tranquillamente succedere che ci sono periodi della vita in cui le cose vanno male però si è felici. E viceversa: magari tutto è semplice, va secondo i versi, ma ti senti disperato. Questa cosa che mi piace moltissimo, vuol dire che la felicità è indomabile: è una bestia. Fa quello che vuole, è un gatto».
MdG: «La felicità è una questione di secondi, la cosa che le si avvicina di più è mi rende felice è l’essere circondato da sentimenti positivi, uscire per strada, vedere la gente che ti riconosce, e ti saluta e ti sorride. Incontrare un tassista che tira fuori il tuo libro dal cassetto e ti dice: “Dotto’, voi scrivite intra a capa mia”. Devo ammettere anche che mi rende felice aver fatto in modo che la mia famiglia sia al sicuro dagli imprevisti economici. Perché ho vissuto per tantissimo tempo nella condizione opposta, cioè in bilico di fronte agli imprevisti».
Siete d’accordo su tutto. Ci sarà qualcosa che vi divide.
DDS: «La strepitosa capacità di Maurizio di scrivere così tanti libri. Non riuscirò mai a produrre tanta narrativa come fa lui, con la sua grande arte del racconto».
MdG: «Ho un affetto immenso per Diego, uno dei regali più belli che mi abbia fatto la scrittura: come la conoscenza di Andrea Camilleri e di persone incredibili come Mauro Corona nella sua folle, profondissima sensibilità. Al tempo stesso, la scrittura ci divide: la sua ha una tale ampiezza da poter tranquillamente diventare un fine. Per molti di noi la scrittura è un mezzo per raccontare altro. Nel caso di Diego ha il valore e la profondità per diventare un fine. È come Eric Clapton: lo senti e ti basta, non è che devi fischiettare la canzone dopo...».
DDS: «Da chitarrista amatoriale sentirmi paragonare a Eric Clapton…».
MdG: «L’ho detto apposta».