Cultura
novembre, 2023

L'indagine in stile CSI che rivela tutta la verità su Dracula

Vlad III, principe di Valacchia, vissuto tra il  1431 e il 1476
Vlad III, principe di Valacchia, vissuto tra il 1431 e il 1476

Due ricercatori hanno studiato alcune lettere scritte da Vlad III, scoprendo che il principe di Valacchia aveva diverse malattie che ne giustificavano alcune caratteristiche come il lacrimare sangue. Ma a quanto pare, non aveva la porfiria, patologia "chiave" nella versione di Bram Stoker

Vlad Drăculea detto l’impalatore, principe di Valacchia, nella seconda metà del secolo XV con tutta probabilità non si sdraiava in una bara prima che sorgesse il sole per evitare di ridursi in cenere, non prendeva le sembianze di un pipistrello a volontà, non beveva sangue umano. Non era un vampiro, insomma, anche se probabilmente la sua figura e la sua fama di aristocratico crudele e sanguinario è servita come ispirazione allo scrittore Bram Stoker e a quelli che dopo di lui hanno contribuito alla prosecuzione del mito nella cultura popolare.

 

Il Vojvoda che regnò fra i Carpazi e il Danubio inferiore per tre diversi periodi, fra il 1448 e il 1476, è ancora considerato dai romeni come un eroe nazionale per la sua strenua difesa del regno contro gli invasori ottomani. Sulla sua ferocia ci sono pochi dubbi: narrano gli storici che nel ritirarsi dopo uno scontro militare, nel 1462, Vlad III lasciò il campo di battaglia con migliaia di prigionieri impalati, come deterrente verso le forze turche che avanzavano. Il suo nome, che significa “figlio del drago”, in riferimento al padre Vlad II che nel 1431 era stato insignito dell’ordine del Dragone dall’imperatore Sigismondo, in romeno è diventato sinonimo di “diavolo”.

 

A renderlo una figura affascinante per il romanziere irlandese, dopo qualche conversazione con lo storico Hermann Bamburger, potrebbe essere stata la sua natura violenta. Ma un particolare significativo che potrebbe aver contribuito alla nascita delle leggenda e alla creazione del personaggio letterario – quello sì, immortale – viene da una rara patologia: il principe, sottolinea una squadra di ricercatori tutta particolare, piangeva lacrime di sangue. In termini più precisi, è probabile che il Vojvoda soffrisse di emolacria, cioè appunto presenza di sangue nelle lacrime, una condizione clinica che può essere causata da problemi semplici come una congiuntivite batterica, ma anche dalla tubercolosi o da tumori dell’apparato lacrimale.

 

A dirsene convinti, sia pure con le inevitabili prudenze, sono Gleb Zilberstein e Pier Giorgio Righetti, gli investigatori del passato che adottano i metodi scientifici forensi da CSI per esaminare documenti autentici e ricavarne informazioni esclusive, a volte conferme della Storia nota, a volte smentite inaspettate. Per esaminare tre lettere del Vojvoda Vlad III si sono affiancati a una squadra di ricercatori dell’università di Catania e a un collega dell’ateneo romeno di Sibiu, in Transilvania, oltre alla moglie di Zilberstein, anche lei scienziata dell’università di Rehovot, in Israele.

 

I campioni che il team ha potuto esaminare sono lettere spedite dal principe alle autorità locali di Sibiu, conservate negli archivi della città. Le particelle di proteine prelevate durante la ricerca «non hanno indicato tracce di porfiria», dice Righetti, anche se questo non esclude che Vlad ne soffrisse o l’avesse manifestata in altre fasi della sua vita. La porfiria è una malattia genetica che fra gli altri sintomi provoca anemia, problemi gengivali e persino una eccessiva sensibilità alla luce del sole. In passato era diventata comune l’ipotesi che il Vojvoda ne fosse colpito, o che comunque dalle manifestazioni patologiche di questo disturbo fosse stata costruita, grazie alla fantasia di Stoker e dei successori, la leggenda del vampiro con i canini aguzzi e la paura della luce solare.

 

Non ci sono conferme di questa ipotesi nemmeno nella testimonianza del vescovo Nicola di Modruš, contemporaneo di Vlad III e rappresentante del Papa alle corti di Bosnia e Ungheria: il religioso descrive il principe come «non molto alto, ma robusto e forte, con aspetto crudele e terribile, un lungo naso diritto, narici tese, un viso sottile e rossastro in cui i grandi occhi verdi spalancati erano incorniciati da nere sopracciglia cespugliose, che li facevano apparire minacciosi».

 

Qualche dettaglio in più però arriva grazie alle ricerche di Zilberstein e Righetti, basate sulle tre lettere spedite a Sibiu fra il 1457 e il 1475. Secondo i risultati della ricerca - pubblicati sulla rivista Analytical Chemistry - con tutta probabilità il principe di Valacchia soffriva di una forte infiammazione all’apparato respiratorio, alla pelle, o a entrambi. Con un filo di fantasia in più, se ne può dedurre una voce cavernosa e magari un aspetto inquietante.

 

Al di là delle ipotesi da leggenda, a rivelare i particolari sulla salute del Vojvoda è la tecnologia forense, che ha già sollevato il velo sui segreti di altri protagonisti della Storia. Zilberstein e Righetti hanno perfezionato un procedimento che prevede l’applicazione di lastrine ottenute da scaglie di plastica inerte a cui vengono aggiunte in fusione microsfere di resina a scambio ionico. Come spiega Righetti, docente di Chimica al Politecnico di Milano, questi cerotti umidificano appena la superficie da esaminare, ma senza bagnarla, così che l’esame risulta non invasivo e non danneggia il documento storico.

 

Le microsfere attive prelevano le particelle biologiche depositate sulla superficie: batteri, virus, metaboliti. Queste vengono poi esaminate con la spettrometria di massa ad alta risoluzione, che permette l’individuazione delle proteine e della loro interazione, consentendo così di presumere con certezza la presenza di determinate malattie o di fattori ambientali significativi. Gli scienziati, ovviamente, mettono le mani avanti: «Non si può escludere che nel Medioevo più persone abbiano toccato questi documenti, ma è ragionevole pensare che le proteine antiche prevalenti siano provenienti dal principe Vlad l’impalatore, che scrisse e firmò queste lettere».

 

Questo metodo stile CSI è divenuto famoso con l’esame dei registri che enumeravano i morti per la peste del 1630 nel lazzaretto di Milano: Zilberstein e Righetti hanno individuato 17 diverse proteine del batterio Yersinia Pestis, scoprendo che in quei giorni, accanto alla peste, si era diffuso anche il carbonchio. Le loro analisi hanno permesso di scoprire che George Orwell si era ammalato di tbc in Spagna, che Mikhail Bulgakov faceva uso di morfina, che Stalin probabilmente era in cura per paranoia e persino che Giacomo Casanova probabilmente barava quando, per accrescere la fama di donnaiolo, lamentava di essere sempre colpito da malattie veneree.

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