Come spesso accade la pubblicità riesce a intercettare i sommovimenti del sociale più di altri media. In un recente spot di un modello ibrido 4x4 di una nota azienda dell’automotive giapponese lo slogan richiama la necessità di vivere “fuori dai luoghi comuni”. È una pubblicità a rivelare il peso di una sfilza di luoghi comuni che caratterizzano il discorso quotidiano. Oggi più facciamo “tesoro” di luoghi comuni totali, onnipresenti più la curiosità verrà meno. Una vera e propria galleria di luoghi comuni dove tutti risultiamo collusi. Proprio perché non siamo più curiosi di nulla. La nostra epoca è orfana della curiosità. Troppo faticoso, impegnativo, generoso, semplice, proverbiale mostrarsi curiosi. A domanda non rispondiamo più. Ciò dice parecchio su una cultura che non vuole più essere curiosa, cioè aperta alle novità, onnivora di conoscenza inedita, di sapere fresco, l’antitesi del dogmatismo identitario e del settarismo presente in tutti i campi che genera una patina indifferente.
La curiosità dovrebbe ancora fondere in sé un atteggiamento mentale, ma soprattutto un tratto di personalità, attento, sensibile all’interlocuzione. Anzitutto, comprendendo ciò che vi è di più estraneo ad abitudini, tempi e modi di vita. Voglio spiegare bene questo passaggio, poiché ha a che fare con la signorilità che in questa congerie cafona e maleducata è attitudine preziosa nel declinare i rapporti umani e la socialità. Curiosità è ascolto, racconto, attenzione per la vita degli altri, insomma, dono, condivisione. E sguardo che si capisce immediatamente se sia curiosa o meno. Altrimenti si cade in un certo opinionismo abusatissimo in questi mesi. Forse anni. Originato da una deriva retorica di luoghi comuni, locali e globali, intorno a norme, regole, forme e strumenti del comunicare, l’uso omologante dei social media, a tal punto che mostrarsi, di nuovo, curiosi avrebbe i tratti di un vero e proprio atto politico, prima che culturale. Uno dei tanti meriti della curiosità è l’opportunità di affrontare i temi di stretta attualità senza luoghi comuni, nei cui confronti inesorabilmente gli argomenti che “tirano” prestano il fianco. Una responsabilità a predisporsi ad affrontare temi attuali, al riparo dalla tentazione di imprigionarli nelle nostre idee. Sennò accade quel che accade ogni minuto, cioè produciamo luoghi comuni, inciampando in frasi fatte e pressappochismo dilagante.
La dittatura dei pensieri scontati
Dai territori alle riforme, dalle inerzie burocratiche al crollo d’immagine dell’influencer di turno, i luoghi comuni sono la quintessenza di pensieri e cose che, maledettamente e dannatamente, diamo per scontati. Peggio ancora, lasciamo volutamente sullo sfondo. Senza omettere il dato strutturale della facile dicotomia fra “polticamente corretto/scorretto” e del furbesco “marketing del disappunto e del risentimento” talmente consapevole che nulla cambi, anche se strillato e urlato ai quattro venti: fare confusione, sovrapporsi, non riconoscere gli altri nell’ennesima riedizione dell’eterno derby fra guelfi e ghibellini, neri e bianchi... Senza confine. Senza sosta. Al pari di certo lessico annoiato degli influencer, delle fashion blogger, degli analisti finanziari, dei retoricissimi talk show e dei progetti che non si realizzano mai. Sostituire al significato il luogo comune rappresenta l’ennesima occasione di perdere tempo dando tempo al tempo. Essere quelli che non si è veramente. Per ore, ore e ore. Il problema è proprio questo: cazzeggiare, mai riflettere. La globalizzazione ha triplicato le poste in gioco, risucchiato corpi e relazioni nel non detto continuo di un muro sempre più invalicabile nella parcellizzazione dei lavori, la fragilità dell’indole, un welfare sempre più residuale sono il minus quam, paradossale o parossistico: dal “così fan tutti” al fatto che l’indebolimento organizzativo ha fatto saltare filtri e reti, all’insegna di una certa supponente informalità. La cruciale sfida intellettiva è questa irriducibilità dell’orizzonte di vita che come è fatto, meglio, ancora pensato ora non funziona più per il semplice motivo che la realtà globale ha, senza badare troppo al discorso, prodotto un linguaggio che non riesce più a descrivere la combinazione e ricombinazione dei piani in una mappa dove ognuno è una coordinata di un mondo stravolto: perché è la vita a essere stravolta. L’imperativo categorico diventa quello di aggrapparsi al luogo comune, in mancanza di un panorama, cioè una visione di scenario, un contesto di significazione dalle aste vintage al social calcando sulla pronuncia, dall’economia circolare alle fake news. Un mondo e un modo sempre più incomprensibile per tutti. In special modo per chi era stato programmato per farcela. E, invece… in mancanza di riferimenti, non restano che spiccioli di vita sociale. Siamo diventati bravissimi a produrre, distribuire, far circolare luoghi comuni.
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Nei social la danza degli automatismi
Magari è tempo di una rimodulazione delle banche dati degli uffici anagrafici, aggiungendo la voce: “luogo comune di esistenza”. Pilota automatico di ogni conversazione, copione superficiale, prontissimo all’uso per scansare la riflessione e l’analisi. Ogni fase, ogni momento ha il suo luogo comune, sull’altrui parere, mix di pigrizia e presunzione. In un mondo in cui, giorno dopo giorno, un minimo di onestà intellettuale farebbe comprendere di sapere nulla o meno di problemi intricati, multidimensionali, connessi, il luogo comune è orizzonte senza filo. Come, i paraguru della rete, che enfatizzano la pronuncia del termine social, per darsi un tono e creare un clima di appartenenza all’innovazione che assieme a riforme, Pnrr farciscono il dibattito istituzionale, da non so quanto tempo. Un tempo sospeso. Esistenziale e non fra carte da riordinare e stati d’animo da decifrare. Le bacheche dei social assomigliano a resoconti, riflessioni, storie, illusioni, delusioni. Le chiacchiere, poi, oscillano fra passati remotissimi e futuro abbastanza nebuloso. Un gioco di sovrapposizioni in cui pattinare quasi in automatico. Simili a distributori automatici di non sense, una volta inserito il gettone o la tessera magnetica. È la danza dei e sui luoghi comuni. Gli stessi, di tanto in tanto, innervati da neologismi, sintesi minime fra il dire e il fare, nel dire e nel fare. Ma in mezzo non c’è il mare, ma una foresta spessa e inestricabile di luoghi comuni. Che è espressione duplice, da una parte, rimanda all’appartenenza ad un gruppo o comunità, dall’altra, funge da preconcetti, messa fra parentesi, positiva o negativa, sulle nostre opinioni e credenze.
E se provassimo a smontarle, ricomporle, ridimensionarle? Basta pochissimo. Ci si può sbizzarrire saltapicchiando, qua e là, fra le strutture simboliche e le infrastrutture materiali. Preso alla lettera, luogo comune interessa la città, i posti, le aree che, per motivi pratici ed etici, usiamo o non usiamo frequentare. Interrogarsi sull’appartenenza, un tempo, si sarebbe detta collettività potrebbe rappresentare un primo interrogativo “fuori dal luogo comune”. Facciamo talmente finta di stare assieme, passando non solo metaforicamente dall’io al noi, oppure, esistono regole e costumi della vita associata. Però, però…
Esiste anche un altro significato di luogo comune che è la tentazione di rifugiarsi al calduccio di slogan su degrado, decoro, nostalgia, innovazione. Di fatto aprendo le porte e spalancando le finestre agli stereotipi, sotto forma di assunzioni e pigrizie mentali che, lungi dall’essere veritiere sono considerati tali, una volta indirizzate ad una situazione, un problema, massime, una categoria sociale. A voler essere eleganti, approssimazioni grossolane. La riflessione (pardon per la parolona) dovrebbe essere dedicata ai molti luoghi comuni. So benissimo che andare oltre è cosa ben diversa dall’accapo. Ridare curiosità e aspirazione alle cose e ai pensieri. Basta non farne una questione formale.