Cultura
15 ottobre, 2025Il regista racconta il poeta a 170 anni dalla sua nascita. Il suo nuovo film, Zvanì, riapre il dossier Pascoli restituendone la complessità: le contraddizioni, la vita familiare segnata dal trauma, la dipendenza affettiva con le sorelle, il suo modo inquieto e personale di abitare il mondo
Poeta sì delle “piccole cose”, ma anche intellettuale europeo, osservatore sensibile delle tensioni sociali della sua epoca, erede della tradizione classica e allo stesso tempo anticipatore della modernità. A centosettant’anni dalla sua nascita, Giovanni Pascoli torna oggi al centro dell’attenzione non come figura imbalsamata nei manuali, ma come autore ancora capace di interrogare il nostro tempo. A ricordarcelo è Zvanì, il film diretto da Giuseppe Piccioni che riapre il dossier Pascoli restituendone la complessità: le contraddizioni, la vita familiare segnata dal trauma, la dipendenza affettiva con le sorelle, il suo modo inquieto e personale di abitare il mondo. E allora da dove cominciare per raccontare Pascoli oggi? Dal cinema, risponde il regista, ma soprattutto da una domanda: chi era davvero Giovanni Pascoli, oltre il mito scolastico? Lo abbiamo chiesto a lui.
Nel 2025 si celebrano i 170 anni dalla nascita di Pascoli: il suo film nasce da una ricorrenza o da qualcosa di più personale?
"Pensi che non ne ero nemmeno al corrente quando ho deciso di fare il film, quindi direi che l’ho saputo dai produttori nel momento dell’uscita in sala. Sicuramente non ne ho sentito parlare prima. Parlo per quello che riguarda la mia scelta di girare questo film. L’interesse per Pascoli, a prescindere dal progetto è presente da molto tempo. Volevo approfondire un ricordo scolastico sbiadito: come capita a molti ragazzi, anche io ne avevo ricevuto un'immagine poco affascinante. La proposta di fare un film su Pascoli mi era stata fatta anni fa dal produttore che ha dato l’avvio al progetto, poi è rimasta sospesa finché un giorno è tornata all’improvviso. La sceneggiatura di Sandro Petraglia era già stata scritta. A quel punto mi sono messo a lavoro".
Pascoli era un poeta ma anche un intellettuale che partecipava alla vita civile. Che cosa pensa del ruolo degli intellettuali oggi?
"Mi sembra che oggi queste figure siano sbiadite. È venuta meno l’idea dell’intellettuale in connessione con un Paese. Manca quella relazione con quello che una volta chiamavamo “popolo”, e il popolo non cerca più l’opinione dell’intellettuale. L’autorità morale non c’è più. Pasolini, per dire, lo è stato, in modo controverso ed eccentrico, ma lo è stato. Oggi si è perso il fascino verso la figura del politico o dell’intellettuale, e i poeti vivono in penombra. È come se tutto ciò che è contemporaneo fosse attraversato da una standardizzazione anonima".
Nel film lei non evita di sfiorare il tema della sessualità di Pascoli: un vero enigma.
"Mi rendevo conto che non potevo semplificare. Dovevo mantenermi nei limiti dell’equilibrio. Però mi sembra sia evidente l’idea di una mancata completezza: una vita sessuale quasi assente, o nascosta, soprattutto alle sorelle . Ho cercato di non fare illazioni, ma di comprendere qualcosa di più. Pascoli, nelle sue lettere a Ida e Mariù, a volte si definisce padre, a volte sposo, fratello, anche figlio, come se in questa confusione di ruoli potesse realizzarsi l’illusione di essere o aspirare ad essere in tutto e per tutto una famiglia: il suo è un legame indecifrabile. Qualcuno ha provato a parlare di rapporti incestuosi ma su questo ci sono state troppe semplificazioni. Io invece credo che ci troviamo di fronte a qualcosa di diverso e di più complesso. L’idea di un cantiere amoroso, di un progetto sentimentale diverso, un’illusione che unisce i tre fratelli e che è invece un patto che si sottoscrive con la rinuncia. E Ida rompe questo patto, allontanandosi definitivamente dal nido".
Lei ha detto: “Oggi rischiamo di smarrire il fatto che il film sia un’avventura: entusiasmo e difficoltà, gioia e disperazione”. Cosa intende? E com’è stato lavorare con un cast di giovani attori?
Con gli attori abbiamo frugato insieme tra opere e biografia e, man mano, l’idea di Pascoli, quella che lo riduce a poeta delle piccole cose, è svanita. I miei giovani attori si sono messi a studiare, il copione ma non solo. Tutti sono stati contagiati da Pascoli, tutti hanno scelto di amarlo. Ci affascinava l’idea che nelle sue poesie fosse una sorta di medium, un poeta che parla con i morti e i morti con lui. E questo ho cercato di metterlo nel film. E tutti hanno condiviso un film, ma soprattutto un’avventura con la sensazione che quel poeta ci parlasse, che dicesse qualcosa che riguardava anche il nostro tempo. Un’avventura quindi, non un film troppo premeditato, abbandonando l’idea di un protocollo da seguire, Il “protocollo” , questo si può fare, quest’altro non si può fare, sta costantemente soffocando la creatività. Woody Allen dice che è finito il romanticismo nel fare film e devo dire che con l’avvento delle piattaforme si è persa un po’ di magia. La mia preoccupazione più grande è che vedo sempre meno produttori indipendenti: temo che un certo cinema sia condannato alla marginalità. Ma l’industria per rinnovarsi ha bisogno di un cinema indipendente forte, non marginale. Certo fare un film non è un atto di libertà assoluta, ci sono ostacoli, difficoltà, imprevisti. Ma i limiti possono anche essere una risorsa. Sei costretto a trovare soluzioni che non avevi previsto. Girare le scene del treno, con le difficoltà che possiamo immaginare, i limiti angusti degli spazi, del tempo che avevamo a disposizione, il rumore che nelle scene in movimento rendevano quasi impossibile registrare i dialoghi. Insomma il lavoro era particolarmente difficile, e faticoso. Ma il cinema è ricerca, è invenzione di soluzioni. E allora bisogna cambiare i piani, senza perdere la qualità e trovando altre idee, facendo altre scelte, ugualmente preziose.
Pascoli ha ancora un senso nella società di oggi?
"Pascoli viene preso per un “passatista”, ma non è così. Sia nella poesia sia nelle scelte che ha fatto mi sembra un poeta che guarda al futuro. Attraverso il passato parla dei tempi che viviamo. Si definiva “poeta contadino”, ma ha visitato tante città, ha attraversato umori e problematiche del suo tempo. Era curioso, aveva una macchina fotografica, a soffietto. Era competente in fatto di botanica ed era anche un ecologista ante litteram. Amava gli animali. Gli amici gli avevano regalato un fucile da caccia ma quel fucile è ancora lì, a Barga, senza aver mai sparato un colpo. Da bambino, al collegio dei Padri Scolopi aveva studiato il greco e il latino ma anche l’astronomia. Quindi non solo le “piccole cose”, le “umili myricae ma anche le stelle, l’universo di cui la terra e l’uomo sono solo una parte infinitamente piccola. Pascoli ci appartiene ancora per il suo sguardo sul mondo, per la sua capacità di ascoltare ciò che è fragile e di dare voce a ciò che non ha voce. Forse è questo che oggi ci manca: qualcuno che ci aiuti a vedere davvero e a capire, a trovare un modo autenticamente umano di stare al mondo"
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