Cultura
16 ottobre, 2025Il doloroso passato dell’Etiopia, colonia italiana. Le donne e le ragazze, prime vittime delle guerre. Il ruolo di chi scrive. I romanzi dell’autrice etiope, vincitrice del premio Grinzane
Maaza Mengiste è una delle più importanti scrittrici contemporanee di lingua inglese. Nei suoi libri (in Italia editi da Einaudi) ha raccontato il doloroso passato dell’Etiopia coloniale facendone uno spettro attraverso il quale guardare la nostra contemporaneità. Quando racconta, Mengiste sa declinare la ricerca storica e l’impegno civile alla parola lirica che indaga la natura umana e si appella a quello che tutti gli uomini e le donne condividono in nome del rispetto reciproco. L’11 ottobre riceverà il Premio Speciale Lattes Grinzane e in quella occasione terrà al teatro Sociale di Alba la sua lectio magistralis.
Maaza Mengiste, in un mondo come il nostro straziato dai conflitti e dal pericolo del sovranismo, che ruolo devono avere gli scrittori?
«Se penso al genocidio che sta accadendo a Gaza, mi rendo conto che si tratta di un assalto non solo all’umanità, ma alla lingua e ai suoi significati. Un assalto alle parole e alla memoria. Penso che l’obbligo degli scrittori sia intervenire a sostegno dell’integrità e del valore delle parole. La battaglia per Gaza è una battaglia per quello che non dobbiamo dimenticare. Il ruolo degli scrittori è combattere per quello che abbiamo visto, in modo che sia ricordato nella Storia che verrà raccontata riguardo a questo nostro tempo».
Attraverso le immagini che ci arrivano da Gaza ogni giorno è come se noi tutti fossimo testimoni diretti della violenza. Questo chiama in causa la nostra responsabilità.
«Il genocidio ci porta a essere testimoni e a testimoniare a nostra volta. Siamo messi davanti ai molti tipi di crudeltà che gli uomini sanno infliggere. A volte mi sono detta: ho visto abbastanza, non posso continuare a guardare queste immagini, è troppo difficile. Poi ho realizzato che i palestinesi non ci mostrano solo il dolore, ma anche la loro umanità, la tristezza, il lutto. Noi tutti possiamo e dobbiamo provare dolore insieme ai palestinesi. I cittadini di Gaza ci chiedono di sentire quello che sentono loro».
Nei suoi libri, “Il re ombra” e “Sotto lo sguardo del leone”, ha scritto dell’invasione fascista in Etiopia nel 1935 e della rivoluzione etiope del 1974. Si ha l’impressione che lei, però, non scriva per rievocare, ma per denunciare. Scrive, direbbe Albert Camus, come una scrittrice “in rivolta”.
«È molto interessante pensare a quello che diceva Camus e alla direzione che suggerisce tuttora agli scrittori: quella di scrivere e creare pericolosamente. L’intento dei miei romanzi non è quello di condannare, perché penso che condannare sia fin troppo facile, facile mettere gli altri sulla difensiva, classificare le persone come fascisti, uomini crudeli. Non volevo parlare di Graziani e Mussolini. Ho sempre guardato alle persone comuni. E non volevo solo comprendere la natura della resistenza ma anche quella della crudeltà, persino la crudeltà estrema come quella di Kidane, che era etiope, e di Carlo Fucelli, italiano e fascista. La crudeltà non è piatta, non è l’unico colore di una vita. Quando vediamo i fascisti di oggi che hanno una famiglia e amano i loro figli, dobbiamo sapere che quella gentilezza si accompagna con un lato oscuro. Dobbiamo sapere che entrambi gli aspetti sono compatibili in una stessa persona. E che la crudeltà va sempre combattuta».
Quando parla del passato è come se parlasse del nostro presente.
«Sì. Non è possibile vivere oggi e non pensare ai fascisti intorno a noi. Io abito in una nazione fascista (gli Stati Uniti, ndr). Ci vivo ora. È inutile dire che il fascismo sta tornando. È già qui. E non penso neanche che sia cambiato, ma che ora non ci siano più maschere. Non c’è più alcuna illusione riguardo al capitalismo, riguardo al potere. La grande sfida per scrittori e giornalisti è questa: cosa succede quando non ci sono più illusioni? Qual è il codice morale da assumere?».
Esiste una lunga e complessa storia del colonialismo italiano che è rimasta occultata. Esistono milioni di invisibili, persone di cui la Storia non si è occupata. Chi sono gli invisibili a cui è necessario dare voce oggi più che mai?
«I primi che vengono in mente sono naturalmente gli abitanti di Gaza. Tutti quelli che stanno cercando la loro famiglia sotto le macerie, tutti coloro che aspettano una persona tenuta prigioniera. I più invisibili rimangono i bambini, le storie che ancora non vogliono raccontare. Ma poi penso anche al genocidio che è in atto in Sudan e ai i giovani assaltati in Turchia, come alle persone che soffrono ancora in Etiopia. Io vivo negli Stati Uniti, ci sono migliaia di persone che scompaiono nel nulla dentro ai centri di detenzione. Persone che vengono prese dalla strada, sui posti di lavoro, immigrati soprattutto. C’è una prigione in Florida, Alligator Alcatraz, da cui le persone non fanno ritorno. Arriverà un giorno in cui per queste persone ci sarà un riconoscimento ufficiale. Quello sarà un giorno di giustizia».
Come racconta i corpi nei suoi libri? Che importanza hanno i corpi nel porre un limite alla Storia?
«La guerra è sempre una storia di corpi. Nei miei romanzi ci sono corpi etiopi e italiani. Mussolini voleva una colonia e mandò i soldati. Il costo di un’ideologia è un costo che si paga prima di tutto con i corpi umani. Volevo pensare a quel prezzo fisico, intimo, personale. Il potere decide ma poi sono i singoli individui a pagare».
Mi viene in mente la sua eroina combattente, Hirut. Che ruolo hanno le donne nella costruzione della memoria e delle comunità?
«Le donne sono sempre state centrali nel mantenere la memoria e nel costruire un senso di comunità. Attraverso i lunghi racconti e i ricordi di mia nonna e attraverso tutto quello che ho imparato della mia bisnonna, mi sono interessata alla Storia. Quello che fanno i soldati quando invadono un Paese è attaccare per prime le donne e le ragazze, perché se attacchi le donne spegni il fuoco di una comunità, se attacchi le ragazze destabilizzi un sistema. Conoscono l’importanza del ruolo di una donna nel tenere insieme una famiglia. È una strategia militare, è sempre qualcosa di pianificato. Quando Heirut combatte sa che prima di tutto deve proteggere il proprio corpo, perché attraverso quel corpo passa una promessa di futuro.
In un mondo di laceranti divisioni come il nostro, si può pensare alla letteratura come una patria senza frontiere?
«Ho sempre pensato che la letteratura fosse il luogo dove poter trovare sé stessi, non importa chi sia l’autore della storia e da dove venga. Possiamo non condividere i nostri valori, ma dobbiamo condividere il reciproco rispetto. Quando leggo non sono interessata alle frontiere, ai limiti, ma a come attraversare un nuovo territorio. Forse quando sarò dall’altra parte sarò una persona diversa».

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