Cultura
23 ottobre, 2025Le scene della celebre “Die Walküre” di Wagner, diretta per la prima volta da Daniel Harding. Un’opera d’arte contemporanea dell’architetto francese Pierre Yovanovich
Mi appassiona la narrazione, avverto sempre il bisogno di narrare qualcosa, anche nel mio lavoro di architetto. Ma in “Die Walküre” (“La Valchiria”, ndr) non voglio narrare la storia, anzi non posso». Pierre Yovanovich, architetto di interni e designer, descrive così la wagneriana “Die Walküre”, per la quale firma le scene. L’opera il 23 ottobre aprirà la nuova Stagione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Una produzione importante e imponente, che porta con sé una serie di valenze, artistiche, programmatiche e strutturali.
Secondo l’architetto francese Wagner, con la sua Tetralogia, aveva già costruito un universo narrativo totale, di assoluta potenza, dove concentra e agita i suoi personaggi, in un continuo fluire di azioni, di sentimenti. «La Valchiria è forse la sua opera più grandiosa, la più straziante. E di fronte a questo spazio epico, infinito, ho voluto far emergere i drammi interiori, offrire allo spettatore un paesaggio visivo denso di emozioni, azzerare le distanze. Far vivere i dilemmi dei protagonisti, le loro contraddizioni», aggiunge: «La narrazione per me avviene nei silenzi, nelle tensioni tra i corpi, nel modo in cui la luce cade su una parete in un momento decisivo, bagna gli interpreti con tagli che ne evidenzino anche le ombre, che struttura e definisce le architetture. Voglio esplorare la dimensione più intima dell’opera, dove il mito si confonde con l’umano e l’epos si piega alla psicologia dei personaggi. È questa la storia che desidero raccontare».
Sul podio dell’Orchestra e del Coro di Santa Cecilia salirà il suo direttore musicale Daniel Harding che per la prima volta affronta l’impegnativo titolo, che non viene rappresentato in forma scenica a Roma dal 1961. Inoltre, con “Die Walküre” - che costituisce nell’opera di Wagner il primo giorno, dopo il “Prologo - L’Oro del Reno” - la Fondazione ceciliana dà inizio alla realizzazione di tutto “L’anello del Nibelungo”, presentando il prossimo anno “Sigfrido”, nel 2027 “Il crepuscolo degli dèi” e nel settembre 2028 l’intero ciclo. La valenza strutturale, invece, risiede nella non convenzionalità dello spazio, la Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica, dove non esiste un palcoscenico, una tradizionale struttura di teatro all’italiana, con quella quarta parete completamente abbattuta che lascia una sorta di campo aperto. Un luogo teatrale che può offrire grandi idee, ma può essere al tempo stesso una sfida rischiosa.
Questa sfida Pierre Yovanovitch l’accoglie tutta, restituendo una scenografia integrata nel luogo, che ne esalta la monumentalità e la purezza strutturale. Le grandi scalinate di Santa Cecilia per lui diventano vie del destino, percorsi simbolici attraverso i quali i personaggi si elevano o precipitano. La luce - trattata come materia architettonica - scolpisce gli spazi, disegna zone di intimità o di sospensione, amplificando la tensione drammatica della musica.
Nato a Nizza, Pierre cresce tra la musica e l’opera: «Ho frequentato il Conservatorio e suonato il pianoforte fino all’età di quindici anni. Ho scoperto l’opera qualche anno più tardi, intorno ai venti, quando assistetti a un recital di Jessye Norman alla Salle Pleyel. Cantava i “Vier letzte Lieder” di Strauss. Fu per me un autentico choc», racconta con lo stupore di una scoperta quasi infantile.
Dopo gli studi di economia a Parigi, un incontro fortunato con Pierre Cardin segna la sua formazione: per quasi otto anni lavora accanto al couturier, da cui impara la geometria delle forme, l’uso del colore e il gusto per i dettagli. Nel 2001 apre il suo studio di architettura d’interni. Il suo stile riflette una raffinata sintesi tra modernismo e memoria, influenzato dal movimento svedese “Swedish Grace” degli anni Venti, dai designer americani del dopoguerra e dai grandi maestri del XX secolo come Le Corbusier, Jean-Michel Frank e Tadao Ando. Le sue creazioni coniugano la purezza dei materiali - legno, acciaio, ceramica - con un’eleganza sobria e intellettuale. Collezionista e appassionato d’arte contemporanea, Yovanovitch collabora spesso con artisti come Claire Tabouret, Daniel Buren e Francesco Clemente, integrando opere in situ nei suoi interni per conferire loro una dimensione poetica e unica. Quella stessa dimensione poetica, prima ancora che estetica, che infonde nel monumento wagneriano con una visione che non vuole illustrare, ma abitare la musica: non raccontare la storia, ma rendere visibili i silenzi, le pause, le zone d’ombra dell’anima che la partitura contiene, non dunque una riscrittura, ma una trasposizione dello spazio emotivo dell’opera.
«Insieme a Vincent Huguet abbiamo trovato nella Sala Santa Cecilia l’ambientazione ideale per raccontare», dice scandendo le parole con una chiarezza che dimostra una luminosità di pensiero. «Un palazzo interamente bianco, simile al marmo o al ghiaccio, sorge contro le scogliere di legno, firmate da Renzo Piano. È il Walhalla di Wotan, qualcosa che evoca il mito e la potenza, ma anche le architetture razionaliste di Roma degli anni Trenta o le visioni vertiginose di Piranesi».
Non c’è sipario, in Sala Santa Cecilia tutto è visibile. Lo spazio di “Die Walküre” è volutamente aperto, astratto. Niente illustrazioni letterali. «Il palazzo si affaccia sul fiume dell’orchestra, i cantanti compaiono da lontano, si avvicinano, poi scompaiono: come figure che entrano e si dissolvono nel sogno».
Il gioco su scala, la materia, la luce diventano tensione viva tra intimità e monumentalità, tra reale e mitico, dove il pubblico è accolto ed è parte integrante. Uno spazio le cui anomalie ed ampiezze non sono sfidate, ma vengono abbracciate, quasi “normalizzate”. «Poiché lo spazio è imponente, la scenografia - costruita con materiali tattili, grezzi - deve esserlo altrettanto, ma senza perdere chiarezza. E allora le grandi scale, che definiscono la scena e offrono livelli dinamici agli interpreti, diventano un punto di orientamento in questa “architettura del mito” in cui prevale una tavolozza di colori neutri che non distraggono lo sguardo dallo svolgersi del dramma». Wagner aveva sognato un teatro totale, in cui musica, parola e immagine fossero un unico organismo vivente. È a quella visione che Yovanovitch si ispira, consapevole del debito e della responsabilità. «Come scenografo mi sento legato a quello spirito di innovazione», afferma: «Il mio compito non è ricreare, ma reinterpretare: offrire al pubblico di oggi un’esperienza che risuoni con la stessa forza emotiva che Wagner cercava nel suo tempo. L’opera è una forma viva ancora oggi, un laboratorio di idee. È un’arte totale, e proprio per questo resta attuale. Non è confinata al passato, ma è capace di rigenerarsi ogni volta». Il suo approccio, che unisce sensibilità architettonica e tensione narrativa, testimonia una fede profonda nella possibilità di rinnovare il linguaggio dell’opera senza tradirne l’essenza.
Nello sguardo ampio e dagli orizzonti lunghi di Pierre Yovanovitch la scena non è un fondale ma un corpo vivo, un organismo che respira insieme alla musica. È quel racconto che si dipana da sé.
E la Walkiria di Pierre Yovanovitch non è soltanto uno spettacolo che si narra, ma un atto di riflessione sull’opera stessa come forma d’arte contemporanea e infinita.

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