Cultura
28 ottobre, 2025È morto Björn Andrésen, il ragazzo che fu Tadzio in Morte a Venezia. Con lui scompare un volto che, per oltre cinquant’anni, ha incarnato un’idea di bellezza assoluta e pericolosa
Quando il film uscì nel 1971, Luchino Visconti era già un maestro del realismo decadente. Dopo Il Gattopardo e La caduta degli dei, con Morte a Venezia portò al cinema la fine di un mondo: quello della cultura borghese europea, che in Thomas Mann trovava la sua diagnosi più lucida. La critica dell’epoca si divise.
Alcuni vi lessero un capolavoro della contemplazione estetica; altri lo accusarono di trasformare l’omosessualità in spettacolo, di rendere voyeuristico ciò che nel romanzo del 1912 restava soltanto alluso. Oggi, in un mondo giustamente più attento agli abusi e al consenso, quello sguardo non avrebbe più la stessa aura poetica. Sarebbe letto come il turbamento inaccettabile di un uomo maturo verso un corpo ancora adolescente. Le conquiste morali del nostro tempo rendono quasi impossibile guardare a quel desiderio senza imbarazzo, senza bisogno di prenderne le distanze.
Più che un attore, con Andrésen se ne va un simbolo di un’epoca in cui il desiderio poteva ancora essere rappresentato come una tragedia sublime. Morte a Venezia, però, non parla di abuso. È il racconto di un desiderio che si consuma nel silenzio, che non si realizza ma corrode chi lo prova. È la fine di una forma di estetica europea che ancora credeva nella bellezza come vertigine e rovina insieme.
La maledizione di Tadzio
Come molte star bambine, Björn Andrésen non riuscì mai a liberarsi del ruolo che lo rese celebre. La figura di Tadzio gli rimase addosso come una seconda pelle, impedendogli di crescere artisticamente e umanamente. Nel tempo raccontò come quella etichetta lo avesse soffocato socialmente, creando una distanza tra lui e gli altri, come una membrana invisibile. Negli anni successivi cercò di allontanarsi da quell’immagine. Ansioso di cancellare le voci sulla propria omosessualità e di far dimenticare la figura del “ragazzo più bello del mondo”, evitò ruoli che potessero richiamare quell’estetica o basarsi soltanto sul suo aspetto. Si arrabbiò anche quando, nel 2003, la scrittrice femminista Germaine Greer usò una sua fotografia per la copertina del libro Il ragazzo, senza chiedergli il permesso.
Dallo scandalo dell’omosessualità a quello dell’età
All’uscita del film, nel 1971, lo scandalo riguardò la componente omosessuale di Aschenbach. In un’Italia ancora cattolica e borghese, vedere un uomo anziano folgorato dalla bellezza di un ragazzo sembrò un atto di provocazione. Oggi, mezzo secolo dopo, il tabù si è spostato. Non è più l’omosessualità a inquietare, ma la distanza d’età, lo squilibrio implicito tra un uomo adulto e un tredicenne. Ciò che allora appariva come libertà artistica, oggi verrebbe letto come trasgressione etica. Morte a Venezia è anche la storia di questo mutamento dello sguardo: da scandalo morale a riflessione sul potere, da desiderio estetico a questione di consenso. Riguardato oggi, Morte a Venezia non commuove più nello stesso modo. Forse è giusto così: abbiamo imparato a distinguere la bellezza dalla proiezione, la fascinazione dall’abuso. Ma resta una domanda: con Tadzio è morto anche quel fragile spazio in cui la bellezza, pur pericolosa, poteva ancora farsi arte?
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