Cultura
29 ottobre, 2025Trent’anni fa “La haine”, con Vincent Cassel, mostrò i conflitti della periferia di Parigi. Ora il film di Mathieu Kassovitz rivive con il cine-concerto degli Asian Dub Foundation. Il chitarrista della band: “Le questioni di allora restano attuali”
Esistono film che non sono semplici film, ma manifesti politici. “La haine” è uno di questi. Tanto da aver conservato, negli ultimi trent’anni, il titolo in francese nella sua diffusione planetaria, in omaggio all’originale. Con il suo “L’odio”, Palma d’oro a Cannes 1995 per la migliore regia, Mathieu Kassovitz diede voce a una generazione sospesa tra rabbia e disillusione, seguendo per ventiquattro ore tre amici – Vinz (Vincent Cassel), Saïd e Hubert – nei sobborghi di Parigi. Immortalò con un bianco e nero crudo la rabbia della banlieue, la periferia parigina che da allora tutti chiamano con questo nome, con esiti ortografici più o meno riusciti. E cucì sulla pellicola una colonna sonora che resta addosso.
Nello stesso periodo, nella zona più multietnica di Londra nascevano gli Asian Dub Foundation, collettivo composto da musicisti di origini indiane e pachistane, che unisce ritmi jungle, bassline dub e chitarre selvagge. Da subito la band, nota per la militanza antifascista oggi come allora, si appassionò alla pellicola, costruendoci intorno uno spettacolo dal vivo con lo stesso titolo del film. La loro musica si intreccia con le immagini, proiettate in lingua originale con sottotitoli in italiano. E l’occasione è il Romaeuropa Festival: il cine-concerto dal vivo andrà in scena giovedì 30 ottobre all’Auditorium Parco della Musica (Sala Sinopoli). Raggiungiamo via Zoom Steve Chandra Savale, il chitarrista della band, in una pausa durante le registrazioni del nuovo album, a Londra.
Steve Chandra Savale, il film di Mathieu Kassovitz racconta la rabbia e l’alienazione nelle banlieue francesi. Guardandolo ora cosa la colpisce?
«Ho visto “La haine” più di cento volte. Le situazioni descritte nel film, persone e pezzi di società ai margini, sono ancora tutte lì. Come accade nelle favelas di Rio de Janeiro, dove si parla addirittura un’altra lingua. L’ultima volta che abbiamo portato il nostro progetto in Francia, nel 2019, le banlieue erano attraversate dalle rivolte. Sulle prime pagine dei giornali riecheggiava “La haine”. A distanza di tanti anni il film mantiene un enorme potere comunicativo, ma più lo guardo più mi concentro sul mondo interiore dei personaggi».
Come si sonorizza un film con un’identità musicale così forte?
«Kassovitz non ha usato una colonna sonora classica ma poche canzoni, niente musica di sottofondo. Questo ci ha permesso di sostituire i brani in blocco. Abbiamo portato in scena lo spettacolo cinquanta o sessanta volte».
Il regista l’avete mai incontrato?
«Certo. Nel 2002 venne al Melt Down, il festival curato da David Bowie a Londra. Sembrava molto colpito dalla nostra interpretazione della scena iniziale. Lui usò un brano di Bob Marley (“Burnin’ and lootin’”, ndr), noi invece “Th9”, una canzone del nostro primo album che parla di una vera rivolta contro la polizia, a Londra».
Gli Asian Dub Foundation si formarono a metà anni Novanta nella zona di East London. Che rapporto avevate con la comunità asiatica londinese?
«Abbiamo sempre avuto un legame a metà. Noi eravamo molto legati alla “club culture”, non abbiamo mai detto di rappresentare gli asiatici in Gran Bretagna. Con la musica che suoniamo e le nostre idee politiche, in ogni caso, abbiamo sempre voluto sovvertire certi stereotipi sull’essere asiatici, sbarazzarci dell’esotismo, della cultura hippie, dei luoghi comuni come il “bhangra” (musica e danza tradizionale del Punjab, tra India e Pakistan, ndr)».
I tempi sono cambiati. Oggi in Gran Bretagna si assiste a una grande mobilitazione dell’estrema destra. Dopo l’omicidio di Charles Kirk, il pluripregiudicato Tommy Robinson ha portato in piazza oltre 100mila persone. Con la vostra musica avete sempre combattuto contro razzisti e neofascisti. Ora è diverso?
«Il loro veleno è lo stesso ma gli antidoti sono meno efficaci. Oggi si osserva un’incongruenza totale tra certi aspetti della cultura – l’istruzione universitaria, le arti – dove c’è una sorta di egemonia della sinistra liberale, e la realtà economica, che ha seguito la direzione opposta. Ma non si può avere una società progressista dal punto di vista culturale, se è completamente regressiva sotto il profilo dell’economia. La cultura che si riceve a scuola è scollegata dalla realtà economica, è lì che entra in gioco l’estrema destra. La sinistra liberale si è concentrata sulla cultura, dimenticando l’economia. Sono Elon Musk e i miliardari a scrivere l’agenda economica».
Quale ruolo può svolgere la musica quando l’odio è così forte?
«Qualche anno fa abbiamo inciso un disco anti-Brexit collaborando con Stewart Lee (il comico inglese, ndr). Ha ottenuto oltre un milione e mezzo di visualizzazioni, in alcune classifiche ha raggiunto il primo posto. Quando suoniamo in Gran Bretagna il pubblico è molto felice di sentirci dire ancora queste cose, non sono in molti a farlo. Ma ci potrebbero anche rimproverare, dirci che parliamo solo al nostro pubblico. Accetto le critiche ma oggi possiamo affermare che nel clima attuale ciò che facciamo è davvero importante».
Cosa la fa arrabbiare in particolare?
«Non saprei dire se sono una persona arrabbiata. Capisce cosa intendo? Siamo appassionati, quello sì. Scriviamo musica su cose vere».
Cosa le dà speranza?
«La prossima generazione, non questa. I miei coetanei hanno visto il cambiamento nell’economia digitale, non lo sopportano. Spero nelle generazioni più giovani, come quella di mio figlio, che nella loro vita non hanno conosciuto altro che gli smartphone. Il loro cervello si è rimodellato per affrontare questo mondo. Tra un decennio, quando avranno vent’anni, potremo assistere a un cambiamento mentre noi ci estingueremo. Questa è la mia speranza».
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