Cultura
30 ottobre, 2025Poeta, romanziere, drammaturgo, regista. A 50 anni dalla morte, la voce di Pier Paolo Pasolini continua a interrogare il presente. E la sua eredità è più viva che mai: dal teatro alla moda, dalla musica alla street art
Non c’è gara. Ha vinto la sfida del tempo. Alberto Moravia, nel giorno del funerale – un cupo piovoso inizio novembre romano, piazza Campo de’ Fiori, a un passo dalla statua di un filosofo bruciato vivo dalla Santa Inquisizione – batteva i pugni sul leggio. Sgolato, sgomento, disperato. Quasi urlava: con Pasolini abbiamo perso prima di tutto un poeta. Di poeti ne nascono tre o quattro in un secolo. E Pasolini, aggiunse, sarà fra i pochissimi che conteranno. Vero. È andata così. Tra i pochissimi che contano, anche per chi non ha avuto realmente a che fare con le sue opere. Ogni anniversario tondo lo dimostra: nel profluvio di commemorazioni, mostre, iniziative editoriali. Di nessuno scrittore italiano del secondo Novecento si può dire che abbia una fama paragonabile: se non forse Italo Calvino, praticamente coetaneo e morto dieci anni dopo. «Tu, così sobrio» gli scrive Pasolini pubblicamente – e con asprezza – in uno degli ultimi interventi pubblici, forse l’ultimo. Riguarda il delitto del Circeo. Lo incalza. Lo provoca. Perché dici questo?
I due furono contrapposti in un saggio di fine secolo da Carla Benedetti, “Pasolini contro Calvino”. L’uno, Pasolini, viscerale, impuro, esposto. L’altro, appunto, sobrio, “apollineo”, razionale. Il caldo e il freddo. Il corporale e l’astratto. Con un libro scritto a quattro mani con Alessandro Fiorillo per Solferino, “Pasolini. Un pensiero incarnato”, Benedetti torna sull’avversione radicale di Pasolini per «il pensiero senza corpo, senza materia»: «Per lui il pensiero che astrae non può che portare a mezze verità, che lasciano in ombra ciò che non si vuole vedere e aiutano anche a “mettere a posto la propria coscienza”». E a mettere a posto la propria coscienza sembra spesso votata anche la larga schiera dei celebratori postumi di Pasolini: da mezzo secolo ne celebrano l’ardimento, il coraggio, la visione profetica. Più o meno con lo stesso ritornello, e in sedi pubbliche, politiche e istituzionali, in cui tutto suona un po’ esteriore, quando non falso e ipocrita.
A ogni modo, l’icona Pasolini ha custodito la sua fisicità, mentre quella di Calvino – volutamente resa impalpabile, aerea dalle sue scelte autoriali – è incorporea. L’autore del Barone rampante è un classico scolastico da almeno sei decenni; l’autore delle Ceneri di Gramsci arriva agli studenti per vie più sghembe: una proiezione un po’ distratta di “Accattone”, la partecipazione coatta a un convegno soporifero, a una giornata di ricordo. Ma per paradosso, o forse no, è più facile incontrare Pasolini per la strada. Alzando gli occhi verso la parete di un edificio su cui un writer ha riprodotto il suo volto. Nel quartiere Pigneto, a Roma, c’è anche un Pasolini vestito da supereroe, armato del motto intramontabile e frainteso “Io so”. E basta una veloce ricerca in rete per imbattersi in siti di vendita online, non necessariamente italiani, che vendono t-shirt con immagini e frasi dello scrittore-regista. Con i suoi versi. Con le foto di scena. Una, elegante o forse decisamente fighetta, è tutta nera. La frase in bianco dice: «Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini». In un’altra, c’è lui fotografato accanto a Maria Callas. Volendo, si possono acquistare anche tazze da collezione.
Un merchandising postumo che ha qualcosa di – non trovo l’aggettivo – sintomatico. Non che sia un male questa vitalità nell’immaginario, anzi, ma sul “prodotto Pasolini” avrebbe saputo chiosare lui meglio di chiunque altro.
D’altra parte c’erano, nella sua intelligenza creativa in atto, quasi tutti i presupposti della permanenza. Qualcuno correggerà: sì, ma a fare la differenza è stata la morte. E una morte violenta. Prefigurata o immaginata a ogni modo anche quella: «Solo, o quasi, sul vecchio litoraletra ruderi di antiche civiltà, Ravenna Ostia, o Bombay – è uguale – (…) comincerò piano piano a decompormi, nella luce straziante di quel mare, poeta e cittadino dimenticato». Dimenticato no, per l’appunto: e anche perché, da vivo, è stato fra i pochissimi del suo tempo a pensare al suo lavoro come un gesto molteplice. Non solo scrittore: autore di versi, autore di articoli, di reportage, di testi critici, di saggi, di drammaturgie, di sceneggiature, di canzoni. Nel romanzo faticoso e geniale che si chiama “Petrolio”, uscito postumo, prova a mettere insieme scritture di ogni tipo, qualunque registro possibile: cronachistico, refertuale, lirico. C’è l’appunto, c’è il tono dell’inchiesta, c’è una specie di fantasy morboso ed erotico, c’è il brogliaccio della sceneggiatura potenziale. E avrebbe dovuto esserci anche una sequenza di fotografie in cui si era fatto ritrarre completamente nudo. Come se fosse stato spiato. “Il pensiero incarnato”, tornando a Benedetti. Incarnato e nudo. Esposto.
Il corpo di Pasolini salta sempre oltre la pagina. Teso, muscolare. Palpitante. Quel volto scavato. Quegli occhi piccoli, scuri, penetranti. Il corpo di Pasolini vivo – e il corpo di Pasolini morto, nelle terribili foto scattate all’Idroscalo di Ostia e pubblicate mezzo secolo fa su questo giornale.
Aleggiano da quei giorni quasi ininterrottamente, spesso ostacolando una lettura o rilettura effettiva. Concorrono a rendere “proverbiale” l’opera di Pasolini e due o tre passaggi della sua biografia. Aiutano chi parla retoricamente di Pasolini come intellettuale coraggioso, senza saperne abbastanza. Senza, soprattutto, avere idea che quello spirito di provocazione tanto celebrato astrattamente, se calato nella concretezza, avrebbe il potere di turbarci tuttora. Ma il “Pasolini pop” è ridotto spesso a formule di comodo: il profeta dell’omologazione culturale, l’anti-capitalista; o – tirato per la famosa giacca e incongruamente nel pantheon della destra reazionaria – l’anti-abortista, o quello «che stava dalla parte dei poliziotti» negli scontri con gli studenti sessantottini. No, non ci siamo.
«Vorrei vedere Pasolini in prima serata su Italia Uno», cantano i Pinguini Tattici Nucleari. Ma forse chi li ascolta non sa che Pasolini in televisione ci andava, salvo informare il suo interlocutore – Enzo Biagi, mettiamo – che si sarebbe, parlando, auto-censurato. Biagi chiedeva perché, preoccupato, pronto a offrire disponibilità integrale. Pasolini rispondeva che dire davvero e fino in fondo ciò che pensava sarebbe stato letteralmente impossibile. C’è ancora da fare i conti con questa impossibilità, addomesticata o occultata dalla versione pop di Pasolini. Ben tradotta in un’altra canzone ironica, quella del gruppo folk rock brasiliano-milanese Selton: «E per tutti quelli che pensano / Che questo pezzo sia privo di contenuto / Pasolini, Pasolini, Pasolini, Pasolini / Pasolini, Pasolini, Pasolini, Pasolini».
Quella “impossibilità possibile” non è un’eco vuota, è lo spazio che Pasolini ha perimetrato intorno a sé stesso con una impressionante (leonardesca) sequenza di gesti, come in un’avventura della mente (e del corpo) in cui tutte le certezze sono messe in discussione, polverizzate. Niente può confortarci. Non saremo mai, come lettori o spettatori, blanditi. Mai assecondati in una pur legittima tentazione conformista. Non saremo mai rassicurati. Per questo quando mi imbatto in una locuzione come “ci manca Pasolini”, tradotta perfino in un hashtag – in un giorno qualunque e lontano da ricorrenze, per esperimento, ne ho contate decine tra Facebook e X – mi viene da sorridere.
Non può mancarti, non può davvero mancarci Pasolini: perché agli scrittori chiediamo soprattutto questo, di essere rassicurati. Se lui avesse voce, mezzo secolo dopo la morte, lascerebbe disorientato, atterrito, forse indignato anche l’estensore del post celebrativo.
E ora, un ultimo sforzo. Immaginatevi negli anni Sessanta. Nel 1962, per la precisione. Vi sarebbe capitato, forse, di trovarvi tra le mani un settimanale di politica e cultura, “Vie nuove”. E chissà, forse vi sarebbe capitato anche di scrivere una lettera a Pier Paolo Pasolini, uno degli intellettuali più presenti, discussi e centrali nella scena culturale italiana del momento. Una lettera su qualcosa di importante, che vi stesse a cuore. Così fa Giovanni Petti, lo studente di vent’anni che gli scrive a proposito di un tema specifico e generico insieme: i giovani e l’amore. È un cattolico, Giovanni Petti, convinto che ai giovani come lui serva una vera e propria educazione all’amore, ai sentimenti, all’altruismo. Lamenta l’eccessiva facilità con cui «ci si prende, ci si piace, ci si lascia», l’eccesso di istinto, in qualche modo «non educato», che per lui non rappresenta davvero l’amore ma solo un suo surrogato. Insiste sulla necessità del fidanzamento per arrivare più preparati a un amore che sia “morale”.
Pasolini gli risponde. Gli dice che gli sembra di conoscerlo già, di sapere tutto della sua vita: «Chissà quante volte sono passato, per via dei Faggi, lungo le case dei tuoi vicini, tra i gruppi dei tuoi amici, nelle piazzette assolate di Centocelle, in vista del Quarticciolo e della Borgata Gordiani!». Poi lo inchioda al suo anticonformismo conformista: «Tu, nella tua lettera, non fai altro che ribadire la tua superiorità – la minima superiorità economica, e la rilevante superiorità spirituale – su coloro che tu ritieni volgari, perché rozzi, semplici, violenti o maleducati. Tu hai voluto impartire una lezione su che cos’è l’amore per un’anima bella. L’anima bella è la tua: perciò io ti dico, mio ragazzo cristiano, che, senza volerlo, hai peccato di presunzione. Fino a che punto siamo responsabili di ciò che facciamo? Oh, molto». Nel post scriptum aggiunge: «Riscrivimi fra un anno, quando avrai più letto e più pensato, e, magari, più fatto all’amore». Ciao, sembra dirgli, ciao, anima bella. Ciao, sembra dirci, ciao, anime belle.
LEGGI ANCHE
L'E COMMUNITY
Entra nella nostra community Whatsapp
L'edicola
Schiava virtuale - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso
Il settimanale, da venerdì 31 ottobre, è disponibile in edicola e in app



