Cultura
13 novembre, 2025Articoli correlati
Aforismi folgoranti scritti su carta. “La gentilezza è punk” e molti altri. Opere che restano addosso senza un perché. L’artista nel suo atelier a Milano: “Amo la solitudine, serve per ospitare i miei deliri”
Il mio lavoro nasce da uno spavento», racconta (e scrive) Marcello Maloberti, classe 1966, artista visivo, ma soprattutto poeta, regista e performer. Sicuramente un installatore di turbamenti, visti i suoi lavori, che non cercano mai l’epica, ma una forma di sacralità accidentale. Nella sua casa-studio poco distante da Porta Romana, a Milano, dove lo incontriamo, ne ricorda uno in particolare. «Avevo quattro anni e mezzo. Stavo giocando in un cortile del paesino dove sono nato, Casalpusterlengo, quando vidi un giocattolo cadere dall’alto. Lo presi in mano, ma subito dopo sentii una forte botta sulla schiena. A picchiarmi fu una signora. Rimasi così scioccato che persi l’uso della parola per diverso tempo, recuperata poco alla volta, in autonomia». Poi aggiunge: «Lo spavento arriva sempre da dietro e non si riesce a gestire. Da quell’episodio è probabilmente nata la mia sensibilità artistica», ed è diventata una frase, aggiungiamo noi, che insieme ad altre frasi con altre parole è andata a formare le “Martellate”, la sua cifra stilistica. Il suo tratto distintivo che lo ha fatto conoscere e apprezzare nel mondo dell’arte contemporanea. I suoi sono aforismi folgoranti scritti a pastello su carta e appesi con pinze metalliche senza alcuna ironia compiaciuta o estetismo intellettuale, perché in lui c’è piuttosto un’urgenza, un bisogno quasi fanciullesco di incidere la realtà con le parole.
Tra i tanti, “La gentilezza è punk”, “Il cuore è un bastardo”, “L’arte mi fa schifo dopo mezzanotte”, e, ancora, “Per amore del cielo”, “Le nuvole sono i capricci di Dio” e molte altre, raccolte in “Scritti Fighi 1990/2019” (Flash Art) e in “Cuore Mio” (Treccani). “Piangere Magia”, tra le più poetiche, la tiene appesa in camera da letto, elegantissima e minimale con le sue pareti color salvia che sono in tutto l’appartamento, pieno di libri (le raccolte di Pasolini e di Bene sono in bella vista sulla scrivania) e riviste, mentre vicino la porta d’ingresso troviamo “Torna presto”, un invito davvero a tornare o forse no, perché, come tiene a precisare, «amo la solitudine, necessaria per i miei deliri».
Anche se poi, in realtà, lui l’arte non la fa per sé, «ma per incontrare», citando il suo maestro a Brera, Luciano Fabro, che diceva che l’artista è lo spazio dell’incontro. Quelle frasi, come la recente e incisiva “Vipera”, sono dei graffiti mentali, dei cortocircuiti tra lirica e vita vissuta che funzionano come piccoli manifesti erranti – né politici, né privati – dove ogni parola è scelta come si sceglierebbe una pietra da lanciare in un lago: per il suono che fa nell’impatto. Una delle ultime è stata un neon, “Dio”, prevista per l’intervento site-specific “Metronotte” presentato one night only nella Chiesa di San Carlo, a Cremona. Un Dio a tempo e precario da intendere “come la divinità di tutti”. Non un’insegna religiosa, quindi, ma una parola tracciata con la grafia imperfetta di un bambino, azzurra come il gas che l’alimentava, fornita da una batteria da camion. È bianco, invece, il colore scelto per la scritta sul soffitto del lungo corridoio di casa sua: “Vertigine”. «Mi piace il senso di vertigine, anche perché viviamo in un equilibrio continuo», aggiunge lui. La mostra cremonese è stata curata da Giulio Dalvit, l’artefice di quella che gli dedica la Galleria Raffaella Cortese nel suo trentennale (di cui 28 trascorsi a seguire proprio Maloberti) nei tre spazi espositivi di Milano (in via Stradella) e in quello di Albisola Superiore (“Incipit” e “La conversione di San Paolo”) in programma fino al 23 dicembre prossimo. Una mostra che si apre come soglia di una nuova fase nella ricerca dell’artista, che segue “Metal Panic”, la sua più completa retrospettiva ospitata al Pac/Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano. A questa si aggiunge la pubblicazione di un nuovo libro per Treccani e il grande neon che potrete vedere dal 7 novembre al 7 febbraio del prossimo anno al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, a Roma: un’installazione luminosa a cura di Cristiana Perrella con la scritta “POESIA” capovolta. Un concentrato di opere in cui la fragilità è un valore e la marginalità ne è il centro.
Del resto, da vero artista, Maloberti è un rabdomante urbano che non cerca l’oro, ma l’acqua, la vena segreta sotto l’asfalto della metropoli, sotto la polvere di provincia, in un quotidiano che si ribalta in visione. Da Casalpusterlengo, dove tutto è iniziato, quando, in una fotografia del 1990 intitolata “Famiglia metafisica”, posò con la madre e la nonna. La provincia, in lui, non è mai oggetto di derisione né rifugio nostalgico, ma una lente che ingrandisce la realtà fino a farla esplodere in visione. Come scrisse Pasolini, «la verità non sta in un solo sogno ma in molti sogni» e Maloberti è, a suo modo, un regista di sogni minori, quelli che si fanno a occhi aperti davanti a una vetrina vuota o a un segnale stradale, molto presenti in quella città che abita e interroga da decenni, Milano, per lui “teatro e ferita”. Quel che sembra casuale è invece strategico: i suoi frammenti pongono domande, la sua è una scrittura che non pretende chiarezza, ma ricerca una sorta di verità più profonda. In un’epoca che ama l’urlo, Maloberti ci insegna a riascoltare il sussurro e, forse, anche per questo, come scrive su una delle sue Martellate, «L’arte non consola, ma si siede accanto». Lo ripete a voce, dimostrando di essere uno dei pochi artisti italiani capaci di dare forma alla complessità senza tradirla. Le sue opere si attraversano come i sogni, le città e le poesie che restano incollate addosso senza sapere perché.

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