Cultura
25 novembre, 2025Articoli correlati
Emma Dante nel suo “L’angelo del focolare” porta in scena la violenza tra le mura domestiche. Tra consuetudini di sopraffazione che si perpetuano. Figlie della cultura dello stupro
Quando la scena si apre la moglie giace già a terra morta. Poi si tira su e comincia a occuparsi delle faccende domestiche: lava, pulisce, stira col viso insanguinato. Ma quella ferita che all’inizio quasi disturba lo sguardo dello spettatore, diventa poco alla volta la normalità. E proprio su quell’abitudine alla violenza, sulla ritualità domestica, si sofferma lo sguardo della regista palermitana Emma Dante nel suo nuovo spettacolo – di cui firma testo, regia, scene e costumi – che ha appena debuttato al Teatro Grassi di Milano: “L’angelo del focolare”, una coproduzione Piccolo Teatro di Milano - Teatro di Napoli e altri partner europei, in scena fino al 30 novembre e poi in tournée. È la storia di un femminicidio, raccontato in maniera spietata, grottesca e anche poetica, che avviene in una famiglia immaginaria del Sud, dove le donne sono gli angeli del focolare e gli uomini i padroni colmi di presunzione, interessati solo a muscoli e a prede da conquistare. Non hanno nomi propri i quattro bravissimi protagonisti, sono semplicemente la Moglie (Leonarda Saffi), il Marito (Ivano Picciallo), il Figlio (David Leone) e la Suocera (Giuditta Perriera), delle icone che raccontano vicende lette tante volte sulle pagine dei giornali. «È una storia che potrebbe essere accaduta in una qualunque casa in cui ci sia una donna vessata», spiega Emma Dante, che ha già affrontato il tema della violenza sulle donne sia in teatro che al cinema (con “Misericordia”, per esempio) e anche nella lirica (in “Carmen”). «Non è tanto la morte che mi interessa raccontare, ma il prima, quando la vittima è ancora in vita. Che poi vita non è, perché è la cronaca di una morte annunciata. Ed è proprio lì che bisogna agire, scendere in piazza prima e non dopo».
Bisognerebbe combattere l’indifferenza, raccontare e ascoltare. Fare rete potrebbe evitare le tragedia?
«Il problema è che queste tipologie di donne sono sole, non ce l’hanno una rete. La mia donna muore a 16 anni, prima ancora di morire in scena svariate volte. Durante lo spettacolo – in cui il marito, in maniera comica e grottesca, insegna al figlio il training per agguantare la preda – a un certo punto la moglie dice al figlio: questo è l’insegnamento sbagliato di un troglodita, di uno che non sa cosa siano i sentimenti. E racconta come ha conosciuto il marito, di lei che a 16 anni entra in una pista da ballo per divertirsi, con un vestito fucsia e le ballerine sbrilluccicanti, e incontra quest’uomo che la punta, la fa ballare e poi la porta in campagna e la stupra. In quel momento lei perde i suoi sogni, la sua poesia. Lo stupro è una forma di morte, non può essere dimenticata. Purtroppo ci sono storie anche più atroci di quella che racconto in scena, delle architetture del male straordinarie costruite su donne educate in un certo modo che non sanno come difendersi».
La protagonista dello spettacolo viene uccisa con un oggetto che è in ogni casa: un ferro da stiro.
«I coltelli che usano gli uomini per uccidere sono i coltelli che la donna ha usato il giorno prima in cucina; il ferro da stiro con cui la moglie viene ammazzata nello spettacolo è quello che lei usa per stirare le camicie del marito. Gli uomini non hanno misericordia».
Secondo gli ultimi dati del Viminale i femminicidi non fanno distinzioni di luoghi e contesti.
«Possono accadere in qualunque ambiente, anche nelle migliori famiglie borghesi. Il problema all’origine di tutto è che il maschio si sente cacciatore, dal Nord al Sud, in qualunque contesto sociale».
Il punto è il patriarcato: una questione culturale?
«Certo che lo è. Io vengo dal Sud e lì non c’è solo la mafia, ma esiste l’atteggiamento mafioso ancora più pericoloso perché è terreno fertile per far attecchire il male. Stessa cosa vale per il patriarcato. Forse non esiste più il patriarca – anche se ho dei dubbi – ma esiste l’atteggiamento patriarcale, che è insito, perché ci sarà sempre in casa chi ti dice: dove sono i miei calzini neri? Dov’è la mia cravatta a righe? Anche se non li trovi, non me lo devi chiedere! Ce l’hanno dentro, perché ci ha pensato sempre la mamma a trovare quei calzini neri».
Qual è la strada per evitare di arrivare all’uccisione di altre donne?
«Non bisogna essere complici, altrimenti si diventa parte del meccanismo e non ci si sente colpevoli. Bisogna invece prendersi la responsabilità. Se vediamo qualcosa che non va non possiamo dire: io non c’entro. Siamo tutti complici. Capisco che abbiamo paura, è un momento di grande violenza. Ma bisogna avere la forza di denunciare».
Anche la scuola può fare la sua parte.
«Tra famiglie e scuola si dovrebbe costruire un ponticello, su cui far camminare il bambino. La scuola è obbligatoria, ma se non riesce a formare l’individuo a cosa serve? Deve aiutare tutti, insieme alla famiglia. E introdurre l’educazione sessuale obbligatoria (come avviene nella maggior parte dei Paesi europei) sarebbe una svolta, ma non accadrà. Finché il sesso resterà un tabù ci saranno gli stupri, ci saranno le uccisioni per mano di uomini possessivi».
Ora che ha lasciato Palermo per Roma, avrà anche un nuovo spazio in cui poter portare avanti i suoi lavori?
«Sì, uno spazio che si trova nel cuore del Pigneto. Si chiamerà “La carnezzeria” – nome che mantiene il legame con Palermo – ed è in una via dove Pasolini girò “Accattone”. Nel film c’è una scena in cui si vede proprio quella strada e in quel preciso punto c’era una macelleria! Per me che continuo e continuerò a occuparmi dello scannatoio dei sentimenti non poteva esserci luogo più adatto di una ex macelleria».
La tournée: Napoli (4-14/12), Mestre (27-28/01), Firenze (5-7/02), Vicenza (26-27/02), Udine (28/02), Cremona (3/03).
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