Cultura
27 novembre, 2025Emozioni e dilemmi di chi vive in un centro di accoglienza per ragazze madri. Raccontati con l’arte e l’empatia dei Dardenne
"Giovani madri” o ragazze madri? Il titolo del nuovo film dei Dardenne può trarre in inganno. Per evitare lo stigma celato nell’espressione “ragazze”, oggi pare si debba dire “giovani”. Eppure le tante protagoniste di questa frenetica “ronde”, che passa continuamente da un personaggio all’altro, sono proprio ragazze se non adolescenti. Ospiti di un centro di accoglienza a Liegi che consente a queste giovani incinte, o neomadri, di riflettere e trovare la propria strada, non necessariamente tenendo il bambino. Centro che esiste davvero e ha fornito l’ambientazione nonché una ribollente materia prima ai due fratelli belgi. Anche se “Giovani madri” non ha nulla del documentario. Tutto è scritto, pensato, provato, affidato a volti e gesti di giovanissime attrici, con quel gusto del moto perpetuo e dei sentimenti estremi che è ormai la cifra dei fratelli Dardenne. Cinema strappato alla vita, in apparenza. Ma una vita indagata e ricostruita dall’interno, con consapevolezza.
Quindi ecco Jessica, Julie, Ariane, Perla, Naïma. Ognuna con la sua storia, il suo dolore, le sue ossessioni. Sempre differenti ma con molti tratti in comune. Più d’una infatti sembra condannata a replicare un destino che si porta dentro in quanto figlia a sua volta indesiderata o magari data in adozione. Ognuna deve scegliere cosa fare del nascituro. Chi tenta in tutti i modi di convincere a restare un “padre” ragazzino che non ha nessuna voglia di lasciare la sua vita di strada. Chi attraverso quella nascita spera finalmente di riavvicinare la madre mai conosciuta. Chi lotta con la propria madre, che a sua volta la ebbe giovanissima e ora proietta le proprie angosce sulla figlia in attesa. C’è perfino una coppia apparentemente salda e felice che cerca casa, ma ha altre ombre in agguato.
E intanto i Dardenne, come e più di sempre, dispiegano tutta la forza di un cinema apparentemente “frontale” ma intessuto di allusioni, sospensioni, sottrazioni, sorrette da un’arte millimetrica della suspense. Perché mostrare un patrigno violento quando basta una battuta? Perché leggere ora la lettera che la madre scrive a sua figlia, se dovrà essere aperta solo quando la ragazza avrà 18 anni («Tre più di me adesso»)? Così ogni personaggio si arricchisce a contatto con gli altri. Ogni vicenda personale disegna un quadro più vasto e complesso. Fino a quel gran finale pieno di speranza, malgrado tutto, che accanto ai versi di Apollinaire convoca un’arte maggiore, fino a quel momento ignorata dal film. Lasciamo a voi l’emozione di scoprire quale.
AZIONE! E STOP
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Due set da campioni, uno meno. “Il maestro” di Andrea Di Stefano si perde nel terzo atto. Eppure Favino, ex (quasi) campione nevrotico e ammaccato, e il tennista ragazzino che studia da nuovo Agassi (siamo negli anni ‘80) sono personaggi fantastici. Metafora, profondità, divertimento: c’era tutto. Urgono nuovi script doctor.
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