Cultura
27 novembre, 2025Può l’intelligenza artificiale essere davvero creativa? Lo studioso inglese interviene ad ARTis, a Vicenza. E spiega perché l’algoritmo non sostituirà l’artista. Dalle caverne a oggi
«Le immagini sono molto antiche», mi ha detto una volta il grande artista britannico David Hockney. «Credo che siano più antiche del linguaggio». Aveva ragione. Sicuramente ci sono dipinti e incisioni che risalgono a decine di migliaia di anni prima delle più antiche testimonianze scritte. Di fronte a queste raffigurazioni nelle grotte dell’Europa sud-occidentale, due cose sono subito chiare.
Una, è che le persone che hanno realizzato queste meravigliose opere non erano certo dei principianti. Devono pur aver fatto parte di una tradizione pittorica, devono esserci state opere precedenti che risalivano al passato più lontano. In effetti, le arti visive potrebbero essere perfino più antiche dell’umanità. In un libro sulla storia della scultura che ho scritto con l’artista britannico Antony Gormley, “Shaping the World: Sculpture from Prehistory to Now”, 2020 (“Dare forma al mondo: la scultura dalla preistoria ad ora”), abbiamo incluso alcune opere realizzate dai nostri antenati e dai predecessori dell’Homo sapiens.
Un pensiero mi ha colpito entrando in una grotta della Dordogna, faccia a faccia con un dipinto di circa 20mila anni fa che rappresentava un gruppo di bisonti in carica: la persona che realizzò questa pittura doveva essere stata proprio come noi.
Ci sono molte cose che non sapremo mai di quell’artista paleolitico – che lingua parlava, quali credenze avesse – ma semplicemente osservando i segni sulla parete rocciosa si può intuire come vedeva e percepiva quei bisonti. La mia conclusione è che la pittura può comunicare, intuitivamente e non verbalmente, anche attraverso un grande abisso temporale. Come ho detto nella mia conferenza al Festival dell’Arte, ARTis, a Vicenza, la pittura è un’arte perenne, vitale oggi come lo era quando fu dipinta quella grotta.
Viviamo in un’epoca in cui si prevede – e spesso si teme – che molte funzioni umane siano sul punto di essere sostituite dall’intelligenza artificiale. Potrebbe succedere anche all’artista? Non c’è dubbio che gli artisti stiano già utilizzando l’intelligenza artificiale come strumento e ausilio. Un algoritmo potrebbe forse rimpiazzare nel XXI secolo la bottega degli assistenti che aiutarono Rubens e Raffaello a creare i loro dipinti? Il pittore britannico Harold Cohen (1928-2016), laureato alla Slade School of Art di Londra e scelto come rappresentante della Gran Bretagna alla Biennale di Venezia nel 1966, impiegò decenni a realizzare opere in collaborazione con un programma informatico da lui creato chiamato Aaron. Cohen spiegò che Aaron era «un colorista molto migliore» di quanto lui fosse, e che poteva creare un numero illimitato di immagini mentre lui era ancora «a letto». Quando gli chiesero quale fosse stato il suo contributo, spiegò: «Ho scritto il programma». Ma, proseguì, non è «del tutto corretto dire che il programma segue semplicemente le regole che io gli ho dato: il programma è le regole». In altre parole, proprio come gli assistenti di Rubens erano in grado di dipingere nel suo stile, Aaron poteva lavorare in quello di Cohen. Naturalmente, in entrambi i casi, era l’artista a creare lo stile.
Potrebbe, l’intelligenza artificiale, fare un ulteriore passo avanti e diventare un’artista creativa a pieno titolo? Quando ho chiesto a un amico pittore cosa pensasse dell’arte prodotta dall’intelligenza artificiale, la sua risposta è stata breve: «Chi se ne importa?». Il motivo per cui siamo interessati a un dipinto o a una scultura meravigliosa è proprio il fatto che è stata realizzata da un essere umano che è nato, morirà e ha avuto innumerevoli esperienze, ricordi e sentimenti.
Gilbert & George – il duo artistico britannico che lavora come una singola entità creativa fin dal 1967 – una volta hanno fatto un’osservazione simile. George ha sottolineato che quando entri alla National Gallery di Londra e vedi un capolavoro di Constable, «sai che è Constable a parlarti». Gilbert (di origine ladina, nato, tra l’altro, a San Martino in Badia, in Alto Adige) ha aggiunto: «Cos’è un quadro di Rembrandt? Egli stesso, con tutti i sentimenti interiori dell’artista. O un’opera di Van Gogh? È proprio lui, l’artista stesso, cioè una persona completamente maniaca».
È vero. L’intelligenza artificiale non può competere con tutto ciò. L’Ia è un “pasticheur”, un imitatore incomparabilmente brillante. Può ricreare il soffitto della Cappella Sistina nello stile di Walt Disney – o riscrivere la Divina Commedia nello stile di James Joyce – e farlo in un istante. Ma non può creare qualcosa di profondo e di nuovo, perché per farlo è necessaria ben più di una potenza illimitata di elaborazione dati.
C’è bisogno di un corpo, e di tutto ciò che comporta essere un’entità biologica: sensazioni, dolori, piaceri, speranze, sogni, sentimenti, desideri. Un computer non può avere nulla di tutto ciò, non più di quanto possano averne un bollitore elettrico o un tostapane. Teoricamente, forse, si potrebbe programmare una macchina con tutti i ricordi, i tratti emotivi e psicologici, per esempio, di Picasso. Ma che senso avrebbe? Creerebbe solo dei multipli di Picasso, niente di originale.
Ecco perché l’affermazione di ARTis, «Non vi è arte senza artista», pur sembrando ovvia, in realtà è profondamente vera. Abbiamo bisogno dell’artista perché possa comunicare attraverso immagini, suoni, ritmi, movimenti, con una pennellata, la lavorazione di un pezzo di pietra o una serie di note musicali. Questi gesti parlano, e arricchiscono le nostre vite di creature viventi, sensibili e senzienti che siamo noi. Ecco perché quelle pitture rupestri sono ancora così potenti. Come ha detto Hockney: «Il primo disegno mai fatto di un animale fu probabilmente osservato da qualcuno che, incontrando poi quella creatura, e guardandola dal vivo, la vide con più chiarezza».
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