Cultura
27 novembre, 2025Un continente frammentato. Abitato da cittadini ingrati e pieni di rancore. Con la Storia come pesante zavorra. La lucida analisi del filosofo tedesco nel suo nuovo saggio
Per quanto concerne l’Europa, un continente senza colonie e ormai politicamente ridotta a sé stessa, nessuno può affermare che in questo momento delle risorse alternative la stiano nutrendo in modo particolarmente intenso. (…). Nel giro di pochi decenni, la testa recisa dell’Europa si è unita – sempre dall’alto e senza un’energia concreta dal basso – a un corpo complicato, ma non più mostruoso, di ventisette organi; e si stanno ancora cercando nomi e definizioni per descrivere questa assurdità, per la quale nella storia dei grandi organismi politici non esisteva un modello. I vari tentativi di dare un profilo a questa novità – come la definizione di “potere silenzioso” – non hanno ancora portato a risultati convincenti. Le meditazioni di Derrida del 1990, stilate sotto l’impressione delle novità a est, oggi si rileggono come un capolavoro di ambiguità: il suo era un tentativo di allineare una serie di imperativi ipotetici e pretenziosi congiuntivi come garanti formali della prudenza e della cautela sempre richieste dalla storia. Derrida era uno di quei pensatori che sembravano credere sul serio che una parola fuoriuscita dalla bocca di un filosofo potesse condurre – come alcuni esempi del XIX secolo avevano mostrato –, attraverso moltiplicatori ideologici e opportune costellazioni di potere, a nuove grandi guerre, o persino a guerre mondiali. (…). Nel bene come nel male, i meandri di Derrida e i suoi giochi un po’ stantii con le parole “capo”, “capitale” e “capitali” assumono il valore di testimonianza delle difficoltà di questa regione del mondo, emersa come un’entità spezzata dalla sequenza della doppia guerra dal 1914 al 1945. (…)
Viviamo dunque in una parte del mondo altamente compromessa, dove ogni tentativo di un nuovo inizio è vanificato dalla zavorra di una storia eccessivamente pesante. Chiunque in questa situazione si assuma il compito di ripensare l’Europa deve rendersi conto che si tratterà di elaborare concetti per una novità politica e culturale la cui esistenza è ancora in gran parte sconosciuta: ossia concetti per un continente senza qualità.
Abitato da mezzo miliardo di persone e ambito come luogo di accoglienza da innumerevoli potenziali immigrati, dalla fine della Seconda guerra mondiale questo continente è alla ricerca di un nuovo obiettivo per sé e per i suoi popoli, che vengono cautamente chiamati “popolazioni” per evitare che le loro peculiarità di populus o demos non finiscano per inebriarli. Nella forma dell’Unione europea si è riusciti in ogni caso a realizzare un’improvvisazione politica che non era certo prevista nei copioni della storia mondiale. Il quasi-continente ha creato così un grande organismo politico che, nonostante le sue dimensioni, non presenta né gli atteggiamenti né il comportamento di un impero. Le sue capitali possono godere di tutti i vantaggi della vita urbana, ma hanno rinunciato al carisma fallico che un tempo era associato alle metropoli delle potenze fondatrici di colonie. Attirano sì i turisti, ma senza essere stazioni di trasmissione di missioni più ampie. Gli abitanti dell’Europa onorano lo stato della loro nuova europeità attribuitagli in modo così ascrittivo, con la loro ostinata abitudine di partecipare solo con la metà dei votanti alle elezioni del Parlamento europeo – soltanto i belgi e i lussemburghesi votano alle elezioni europee con la stessa diligenza con cui voterebbero a livello nazionale. E sebbene la stragrande maggioranza dei cittadini del nuovo costrutto europeo si ritrovi dalla parte dei vincitori, grazie alla loro appartenenza a un’entità ancora ardua da comprendere, molti hanno difficoltà a percepire quest’astratta costruzione con quelle emozioni con cui solitamente si accoglie una patria. (…).
Si deve temere che a Dostoevskij sia riuscito di definire l’uomo contemporaneo di questa parte del mondo quando, attraverso la lente del cristianesimo ortodosso e con un’intuizione improvvisa delle sue Memorie dal sottosuolo – la crudele novella del 1864 che ha catapultato il risentimento sul palcoscenico della letteratura mondiale – ha fatto dire al protagonista che l’uomo è un essere a due gambe e ingrato.
L’europeo medio di oggi, che vive con il suo risentimento, non sempre ingiustificato per altro, nei confronti dei processi spesso così opachi, quasi extraterrestri di Bruxelles e Strasburgo, senza neanche considerarne le premesse della sua esistenza, è l’incarnazione dell’ingratitudine – nella misura in cui questa comporta trovarsi alla deriva di suscettibilità quasi post-storiche e senza sapere, tanto meno voler sapere, da quali fonti sia scaturito l’attuale modus vivendi. Troppo spesso insomma gli europei di oggi sono i consumatori finali di un benessere delle cui condizioni di origine non hanno la più minima idea. Nella sua esistenza perforata da vuoti di memoria, la frase di Stephen Dedalus è diventata ormai realtà: “La storia è l’incubo da cui cerco di destarmi”.
Di seguito cercheremo di stemperare un po’ questo spirito d’ingratitudine. Nel farlo, partiamo dal presupposto che l’ingratitudine è solo un sinonimo di ignoranza e analfabetismo, nonché un sintomo curabile di entrambi. Definiamo qui dunque l’Europa come un libro che non viene letto abbastanza da coloro che ne sono direttamente coinvolti; e che anzi i suoi detrattori sfogliano solo per documentare meglio le loro accuse. I capitoli che seguono vanno intesi come segnalibri di un volume dalle dimensioni quasi scoraggianti. Essi sottolineano solo alcuni passaggi, chiedendo a un pubblico distratto di prestare almeno un minuto di attenzione alle pagine contrassegnate.
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