Cultura
15 dicembre, 2025Il rapper cambia rotta. Nel suo nuovo album “Funny Games” attacca la destra e fa mea culpa: "Mi sono sempre detto: non ho un capo, non lavoro per nessuno, cosa mi cambia chi governa? È egoismo puro"
Noyz Narcos: "Ho sempre pensato che la politica non servisse. Ora arriva il conto"
Il rap è cronaca dei tempi dai quali nasce e che racconta. A volte traumatizza, altre spettacolarizza, altre può farsi politica. Non la politica dei politici ma quella post-ideologica di una generazione che impara a muoversi dentro un Paese che non riconosce. Politica cruda, realista. Il rap di Noyz Narcos torna in un disco di rime senza filtri, un camion in corsa senza guidatore contro un mondo raccontato in tutti i suoi raccapriccianti dettagli. “Funny Games”, il nuovo album di Emanuele Frasca (questo il suo vero nome), arriva a vent’anni esatti dal suo primo “Non dormire”. Per il rapper romano segna il ritorno al suo esordio.
Noyz Narcos, cosa significa lavorare come ai tempi del debutto?
«Significa richiudermi con il mio produttore, Sine, come allora. Nessun piano. Solo fare musica come l’abbiamo sempre fatta, senza pensare a come gira il mercato. Quando è uscito “Non dormire” c’erano il rap politico e quello disimpegnato, ma io scrivevo in un altro modo. Mi interessava fotografare la mia realtà senza dare lezioni di vita. Non sono l’intellettuale ma il poeta maledetto, decadente, l’ultimo romantico dei fiori appassiti. Credo di essere stato uno dei primi, insieme a Fibra, di sicuro lui prima di me, a capire che parlare della mia generazione, di quello che avevo fatto la notte prima, dell’amico che era stato arrestato era più interessante che fare la lezione politica. Scrivevo quello che succedeva per le strade. Parlavo di Roma com’era, una Roma molto più selvaggia di oggi, dove i poliziotti mi fermavano spesso. Mi succedeva a Roma e mi succede anche oggi a Milano. La differenza è che adesso mi riconoscono. Mi è capitato di essere fermato e vedere l’agente che fa l’occhiolino al collega e dice: “Ringrazia il collega mio, non voglio sapere che fai, dove vai e come stai”. Poliziotti che ascoltano i miei dischi in macchina, un paradosso, una cosa impensabile vent’anni fa. Ho guidato mille volte ubriaco sulla Casilina e la Tuscolana, oggi prendo Uber. È cambiata la città e siamo cambiati noi».
È così diverso rispetto a vent’anni fa?
«La mia vita è stata sempre al limite, però non penso di aver detto solo cazzate. C’è un Noyz più consapevole, più riflessivo. Ci sono migliaia di ragazzi che mi dicono: “Mi hai aperto gli occhi, mi hai salvato la vita”. La cosa più assurda è quante persone si sono tatuate la mia faccia o il mio logo. Io ho fatto il tatuatore e di solito ti tatui la faccia di qualcuno quando è morto, non quando è vivo. Anche io ho avuto i miei idoli, sono andato ai loro concerti, ma non ho mai pensato di tatuarmeli, né di andare a chiedere foto nel backstage. Andavo al concerto poi andavo a ubriacarmi e a rimorchiare, ma non volevo conoscere il personaggio. Oggi c’è la malattia del dover interagire col proprio idolo. Eminem una volta ha detto: “Non avvicinarti troppo”, per dire “meglio che non mi conosci”. Ecco, l’artista e l’essere umano non coincidono».
Ora fai le foto con i fan?
«Sì, le faccio con tutti. Ci metto più tempo a spiegare perché non voglio fare una foto che a farla. A volte anticipo. Vedo da lontano il tipo che si avvicina, gli prendo il telefono e faccio il selfie. Un professionista. Penso a un interrail che ho fatto quando non c’erano i cellulari, con un biglietto falso. Due mesi in giro per l’Europa di cui non c’è una foto. Tutto resta nella memoria. Oggi se mi si spegne lo smartphone sono fottuto. La tecnologia ha reso tutti più pigri. È come prendere l’ascensore al posto delle scale: ti abitui e non riesci più a fare due piani a piedi. Oggi le nuove star sono i rapper, non ci avrei scommesso una lira. Sono scomparse le differenze e le sottoculture, se guardi l’uscita di una scuola, sono tutti vestiti uguali, stesse scarpe, stessi jeans. L’omologazione, il voler tutti gli stessi oggetti, il volere tutti le foto, è devastante».
Quello che scrivono i rapper viene preso troppo sul serio?
«È storytelling. In Italia si fa fatica a capire che nel rap quello che scrivi non è per forza quello che sei. Se voglio scrivere una canzone in cui divento uno che massacra una famiglia, faccio come un romanziere che costruisce un personaggio. C’è un’intervista a 50 Cent attaccato alla macchina della verità. Gli chiedono se è vero che non beve. Si, io non bevo. Poi gli chiedono: “È vero che non si fa di coca?”. “Si, non sniffo coca”, risponde lui. Ma lui è quello di “In Da Club”, il pezzo che parla di feste di compleanno con droga e alcol. E tutti vogliono sentire quel pezzo al proprio compleanno mentre stappano la bottiglia e magari fumano».
Il titolo del nuovo album, “Funny Games”, è tratto da un film culto.
«Mi interessava la casualità del male e la passività delle persone. La violenza come gioco e orrore. “Funny Games” per me non è manco un film sulla violenza. È quella cosa che tu stai sul divano a fregartene di tutto e magari ti bussa uno e ti ammazza, perché il male arriva a caso. Ci sconvolge più uno che uccide il vicino di casa che le migliaia dei morti in guerra che vanno in onda ogni giorno».
L’album si apre con una frase netta sul governo attuale: «Ha trasformato sto paese in un inferno e ha vinto/ mi ha reso un mostro come Rosa e Olindo». Serve votare?
«Dico che questo governo ha rovinato il Paese e che ha vinto. Per me è assurdo sentire la presidente del Consiglio parlare in quella maniera e vedere che la gente ci si identifica. Io però non mi chiamo fuori, non ho mai votato in vita mia e me ne vergogno. La mia generazione, in gran parte, ha deciso di non votare, di disinteressarsi. Io ho costruito un mio mondo, ho sempre pensato: non ho un capo, non lavoro per nessuno, cosa mi cambia chi governa? È egoismo puro. Siamo cresciuti pensando che la politica non servisse. Ora il conto è arrivato».
Nella sua musica torna spesso la figura del mostro. Chi è il mostro oggi?
«Può essere chiunque. Trump, Kanye West, Meloni. Può essere l’imprenditore che si è fatto il suo impero da solo, legale o illegale e vive solo per il lavoro. Posso esserlo io stesso quando mi rendo conto di aver sacrificato molti rapporti umani per inseguire la mia cosa. Non puoi avere tutto. Se vuoi seguire davvero un sogno, non c’è spazio per una vita normale. Però ci servono i mostri, servono gli eroi e gli antieroi. Da bambini volevamo Spiderman, da grandi cerchiamo personaggi su cui proiettare le nostre pulsioni. Uso il mostro come metafora, non come modello».
Vale la pena impegnarsi?
«Ci vuole molta più forza ad alzarsi ogni mattina, fare lo stesso tragitto, timbrare un cartellino, tornare a casa dai figli con le mani gonfie, che a fare la rockstar. Rispetto moltissimo quella vita li, però se c’è una cosa in cui credi che sia la musica, lo sport, la scrittura, è un peccato non impegnarsi. Ho fatto tanti lavori, dal cameriere al lavapiatti. Se domani tutto questo finisse, potrei andare a innaffiare piante in un vivaio senza rimpianti, perché so di averci provato fino in fondo».
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