Cultura
18 dicembre, 2025Gli attori della compagnia Kepler-452 e gli operatori umanitari. Insieme a bordo di una nave nel Mediterraneo. E poi sul palco. “A place of safety”, spettacolo e missione. Ora in tournée
Quando il teatro scava nelle ferite del presente fino a disvelare un’incapacità di ascolto, non c’è più separazione tra chi recita e chi siede in platea, ma una comunità che sente di dover colmare il vuoto causato dallo spaesamento. “A place of safety. Viaggio nel Mediterraneo centrale”, scritto e diretto da Enrico Baraldi e Nicola Borghesi della compagnia bolognese Kepler-452, racconta ciò che succede durante il soccorso in mare, dove uomini, donne e bambini muoiono, inascoltati dall’Europa. Per cinque settimane la compagnia si è imbarcata su una nave Sar (Search and Rescue), la Sea-Watch 5, e ha navigato lungo la rotta migratoria del Mediterraneo. Artisti e operatori umanitari hanno viaggiato insieme, salvando 156 persone. In mezzo al mare i Kepler-452 hanno preso appunti, osservato, raccolto testimonianze. Poi hanno incontrato gli operatori di Life Support e di Sea Watch, che sono diventati i protagonisti dello spettacolo prodotto da Ert (ora diretto da Elena Di Gioia e Natalia Di Iorio), Teatro Metastasio, CSS, Théâtre des 13 vents, e la collaborazione di Sea-Watch ed Emergency.
Lo spettacolo continua a girare fino ad aprile (sarà al Piccolo di Milano dal 16 al 21 dicembre e in molte altre città tra cui Bari, Genova e Modena). Non si è mai fermato, neppure quando due componenti del cast si sono imbarcati sulla Global Flotilla: Miguel Duarte, fisico portoghese, capo missione per Sea-Watch, l’ong che salva e difende i diritti di chi attraversa il Mediterraneo, e Flavio Catalano, militare in pensione e volontario sulla nave Life Support di Emergency. In quei giorni, durante le repliche romane al Teatro Vascello, è successo qualcosa di incredibile: una comunità di persone si è riconosciuta nelle storie di chi stava raccontando.
«Dopo aver concluso la missione io e Nicola ci siamo chiesti se raccontare la storia di un migrante che ce l’ha fatta o che ha perso la vita in mare», racconta Baraldi: «Ma ad un certo punto abbiamo capito che ancora una volta stavamo scegliendo noi e ci è sembrata un’enorme ingiustizia, una forma di potere che non volevamo compiere». Ecco perché in scena non ci sono i migranti, ma gli operatori. Attori non professionisti (come nel precedente lavoro: “Il Capitale”) parlano delle loro paure prima della partenza o delle motivazioni che hanno spinto ad imbarcarsi. «La parte più difficile per loro è stata proprio questa: accettare lo scardinamento della narrazione, confessare gli aspetti più dolorosi», spiega Borghesi: «Per raccontare queste persone non come eroi, ma come uomini e donne che fanno una scelta straordinaria, serviva indugiare in zone più fragili». Si raccontano nella loro lingua: inglese, spagnolo, italiano, portoghese (lo spettacolo è sovratitolato in inglese). E sono, oltre a Duarte e Catalano, Giorgia Linardi, portavoce di Sea-Watch; Floriana Pati, infermiera; José Ricardo Peña, elettricista sulle navi prima di diventare volontario con Sea-Watch, e Nicola Borghesi, che si imbarca e tiene le fila di tutto.
«Io credo che le scelte teatrali fatte finora ci abbiano portato al centro del presente, nostro malgrado», dice Borghesi: «Non è un caso se due persone che facevano lo spettacolo con noi si sono imbarcate sulla Flotilla, è una necessità». Qui siamo oltre il teatro documentario, oltre il reportage, perché totalmente immersi nel presente, pubblico e attori. E così il teatro entra nella realtà e viceversa. C’è un legame tra il genocidio in Gaza e le morti nel Mediterraneo, ed è la disumanizzazione, diceva Miguel nel suo video dalla Flotilla. In entrambi i casi, aggiunge Baraldi, «la società civile si è sostituita all’azione dei governi per cambiare rotta. All’inizio il tema del soccorso in mare ci sembrava in una fase di risacca anche a causa delle nuove politiche - meno teatrali rispetto a quelle di Salvini - che mandano le navi in porti lontani; queste navi impiegano ore e ore per arrivare nel “place of safety” e altrettante per tornare indietro, una strategia politica più raffinata per distogliere lo sguardo».
La sensazione è che «ci sia un parte di cittadini che ha perso la bussola politica. Chi viene a teatro trova una forma di catarsi, simile a quel sentimento che unisce cuore, pancia, testa e che provi quando vai ad una manifestazione per dire: siamo in tanti, non siamo soli. Questa catarsi avviene nei teatri istituzionali, e per noi che abbiamo una storia di militanza è ancora più importante. Penso alla lettera di Milo Rau rivolta ai colleghi e ai direttori dei teatri. Mi sembra che in qualche modo “A place of safety” sia un tentativo di tenere in equilibrio il nostro bisogno profondo di portare in scena delle opere e la necessità sempre più pressante di non alienarci dal presente. In questo senso i teatri, grazie a quella catarsi, si fanno assemblea, ma anche manifestazione dove, per dirla con Milo Rau “si parla al posto di tacere” e “si prende una posizione chiara”».
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