Ci siamo nati e cresciuti, ma entriamo ogni volta in crisi davanti alla domanda: che cos’è l’Europa? «Noi europei siamo un gruppo di perennemente inquieti, che ha trasformato un continente in un contesto di apprendimento», esordisce Peter Sloterdijk in questa intervista esclusiva. L’Europa è uno spazio inquieto, assetato com’è di sapere e di raggiungere sempre nuove mete, politiche e culturali. È la tesi che Sloterdijk, autore della mastodontica trilogia delle Sfere e del saggio “Devi cambiare la tua vita”, sostiene nella sua ultima opera intitolata “Il continente senza qualità. Segnalibri nel libro dell’Europa” (di prossima pubblicazione dall’editore Meltemi). Un testo in cui uno dei più autorevoli filosofi tedeschi ricostruisce, a partire dalle fondamenta dell’Impero romano fino ai veleni dall’euroscetticismo e dei partiti d’estrema destra diffusi oggi, le matrici e le svolte di un Continente scosso da più crisi di identità.
È sempre più difficile capire chi sia l’europeo del ventunesimo secolo. Una cosa è certa: è una persona molto scettica sulla natura del Continente in cui vive. Perché, secondo lei?
«Non sarei così sicuro che l’europeo medio intenda bene il significato dello scetticismo. In greco antico “scepsi” è lo sguardo critico che porta alla conoscenza. Oggi molti europei neanche guardano all’Europa né vogliono conoscerla nelle sue forme attuali e storiche».
A cosa si deve tanta avversione nei confronti dell’Europa?
«Al semplice fatto che nel 1945 l’Europa è stata sommersa nelle sue vergogne. Da allora, dell’Europa è rimasto un sistema di improvvisazione politica di cui nessuno può andar fiero. E i tentativi dei partiti nazionalisti di rendere i cittadini di nuovo orgogliosi delle rispettive patrie non sono che forme di autoipnosi più o meno ridicole. Sa qual è il problema dell’Europa del ventunesimo secolo?».
Prego Sloterdijk, ce lo dica lei…
«Che in Europa non abbiamo mai avviato una terapia di gruppo. Dal 1945 a oggi ogni nazione ha cercato di elaborare in proprio le sue vergogne. E la debolezza europea è il risultato della privatizzazione delle nevrosi delle singole nazioni».
È questa mancanza di terapia o sono le nevrosi nazionali a far sì che oggi il virus del sovranismo dilaghi in tutta Europa?
«Sono tre i meccanismi che fanno emergere il nazionalismo. Il primo è banale: la realtà ha sempre tendenze entropiche. Ossia, ciò che esiste da tempo perde il suo fascino, e l’alternativa oggi è a destra, perché lì si concentra la protesta contro chi è stato al potere. A sinistra si vota per i programmi umanitari; a destra per mera entropia negativa. Nella sua essenza è questa la radice dell’urlo “Mega!” e di tutti i sovranisti che vogliono il proprio Paese al centro della scena».
Senza parlare delle sfide della globalizzazione, dell’impoverimento e delle paure del ceto medio.
«Certo, la situazione globale incrementa i tratti fobici del ceto medio dato che, come ha detto Schopenhauer, persino i porcospini si avvicinano se minacciati. È il secondo meccanismo del nazionalismo, che monta spinto da reazioni fobiche. Notiamo en passant che non solo i politici d’estrema destra, ma quasi tutta la stampa oggi sopravvive come deposito di fobie e megafono di paure».
Veramente già alla fine del XIX secolo Nietzsche registrava simili meccanismi alimentati dall’acido del risentimento.
«Nietzsche, il profeta dell’antinazionalismo, sosteneva che chi la pensava come lui doveva inchinarsi sotto porte sempre più basse… Se non fosse che le ambizioni-Mega risultano oggi grottesche in Paesi a crescita demografica zero. In Italia, Paese post-cattolico in radicale sciopero di fertilità, pochi sanno cosa significhi avere un fratello o una sorella. E che in una società così solipsistica come quella italiana, dove le famiglie socialmente sono sempre più anoressiche, è un’assurdità che al potere vi siano i Fratelli d’Italia. Con un gesto francescano, la Meloni dovrebbe ribattezzare il suo partito: Fratelli minori d’Italia».
Era il 1983 quando lei pubblicò “Critica della ragione cinica”. Da allora non ha più smesso di studiare i percorsi del cinismo nella società e nella politica. Da Diogene a Dostoevskij, dopo il fascismo in Germania e in Italia negli anni Venti, oggi il cinismo ritorna al potere con politici che più neocinici non si può.
«In quel libro analizzavo il cinismo come una forma di falsa coscienza: le persone devono ingannarsi per sopportare la propria vita. Gli anni Venti sono stati un periodo di splendore dell’auto-inganno perché lì la falsa coscienza si è illuminata, facendosi radicalmente amorale. L’errore del libro del 1983 è che credevo di aver individuato nei fascismi il culmine del cinismo. Ma oggi vediamo con ogni frase e gesto di Trump o di Putin che siamo in una fase ancora più crassa di cinismo, e molto più impudica di ciò che i peggiori truffatori degli anni Venti erano in grado di fare o dire».
La lingua della post-verità parlata da Trump e Putin è quella delle fake news, reiterate ad libitum e spacciate come fatti incontrovertibili...
«È evidente come l’ideologia e la portata globale del web abbiano condotto alla democratizzazione della più sfrenata volgarità. Il terzo meccanismo che spinge le destre al potere è il fatto che mai l’ignoranza e volgarità si erano mostrate su tutti i canali tanto nude come oggi, e senza timore di venir punite. Senza il concetto di “disinibizione”, in effetti, non riusciremo a capire la politica in era digitale».
Dalle politiche sempre più rabbiose della destra estrema torniamo alle origini della politica in Europa. Nel suo libro ricostruisce le prime forme della politica sul Vecchio Continente: nell’antica Roma, con le sue strade e monumentali archi di trionfo, e la volontà di erigere un impero. È pensabile l’Europa senza la matrix dell’Imperium Romanum?
«Storicamente è così, ma d’altro canto bisognerebbe chiedere a ogni individuo delle nazioni europee: quanta “identità romana” c’è in te? Oggi di fatto gli europei non sanno più nulla della politica romana. Certo, Napoleone ha fatto costruire il più grande arco di Trionfo di tutti i tempi e anche gli inglesi hanno innalzato nel XIX secolo due archi di Trionfo a Londra. Il centro di Monaco di Baviera, poi, è una sorta di Las Vegas della cultura rinascimentale italiana».
Oltre all’eredità romana c’è un altro motore che ha creato gli spazi della politica nel Vecchio Continente: “l’effetto-Petrarca”. Cosa vuol dire che in Europa, nell’aprile del 1341, un normale cittadino viene incoronato poeta laureatus?
«Con la sua elezione, Petrarca incarna il paradigma della meritocrazia. Da quel giorno del 1341 sappiamo che in Europa non devi esser nato aristocratico per fondare una dinastia. È la rivoluzione della fama che Thomas Mann definì “l’aristocrazia dello spirito”. Anche i cinesi celebrarono i mandarini, ma grazie all’effetto Petrarca si mise in moto in Europa un movimento culturale assolutamente nuovo e creativo».
Si riferisce alla competizione culturale fra allievo e Maestro e tra i discepoli fra loro?
«Esatto, prendendo spunto da un saggio del sociologo americano Robert Merton, nel libro ho ricostruito le onde di feedback che la cultura di stampo europeo riproduce. “A chi ha sarà dato”, diceva Gesù e non era certo il primo dei neoliberali. Il senso della parabola è invece quello di implementare le energie del feedback su cui, da Petrarca in poi, si fonda la fama in senso moderno, e quindi lo sviluppo della politica e cultura in Europa».
Nel suo libro, pone un segnalibro tra le pagine del Capitale, lì dove Marx analizza l’accumulazione del capitale.
«Solo un europeo come Marx poteva analizzare l’energia accumulativa del capitale che cresce su sé stessa. È la stessa logica che le forme del sapere e della globalizzazione avevano assunto nell’umanesimo italiano e poi con i viaggi di scoperta di Colombo. Essere europeo da allora vuol dire praticare l’arte di non esser mai soddisfatti di sé stessi. Per questo, gli europei sono quel gruppo di eterni insoddisfatti che ha trasformato un Continente in una scuola. È il punto sul quale il pedagogo boemo Comenius polemizzò con Shakespeare: il mondo non è un teatro, e noi non siamo solo attori. Il mondo è una scuola, in cui allievi e maestri si stimolano a vicenda, per questo non finiremo mai di imparare a conoscerlo. Ecco l’impianto su cui si basa l’Europa».
C’è un’altra caratteristica nell’avventura umana impensabile senza la storia europea: l’esame di coscienza. Una tendenza “confessionale” a cui dobbiamo, da Agostino a Rousseau, da Casanova a Baudelaire sino a Foucault la volontà di dire la verità su sé stessi.
«Pascal ha condensato in una frase questo tratto così intimistico dell’europeo: «Le moi est haissable», l’io è odiabile. Chi non riesce ad odiarsi è fuori dai margini della nostra identità, visto che è tipico dell’europeo prender le distanze da sé stesso. Lo spazio confessionale, come atto linguistico e genere letterario è concepibile solo qui in Europa».
Ci scandalizziamo per le guerre di Putin, per i propositi grotteschi di Trump di costruire hotel di lusso a Gaza. Ci siamo forse scordati le stragi della Conquista spagnola, portoghese, olandese e belga e gli imperi coloniali inglesi? Ignatio de Loyola, fondatore dei gesuiti, spronò le missioni degli europei dicendo: “Ite, inflammate omnia!”.
«I viaggi di scoperta e conquista del Sud del mondo furono una apocalisse della Terra che ha cambiato radicalmente il volto del cristianesimo, dell’Europa e del globo. Nel Mediterraneo il cristianesimo ha combattuto le sue crociate contro imperi musulmani, ma dopo i viaggi di Colombo il cristianesimo si trovò davanti a continenti e uomini nuovi. Per gli europei lo choc non è mai stato che la Terra non era più al centro, ma scoprire che su questa Terra c’erano continenti con tanti esseri non battezzati. Da qui la furia missionaria dei gesuiti».
Una furia che si compie con il Manifesto antropofago, del 1928, del surrealista brasiliano Oswald de Andrade, che invitava in un’insurrezione cannibale a divorare i colonizzatori bianchi. Nel 1967, Susan Sontag scriverà: «La razza bianca è il tumore dell’umanità«. E oggi Michael Houellebecq spera che l’Occidente sparisca. Riusciremo mai in Europa a superare il trauma dell’imperialismo coloniale?
«Sontag ed Houellebecq rappresentano l’impulso confessionale a livelli masochistici estremi. Se diamo retta a loro, i migliori europei sono coloro che confessano più peccati di quelli commessi. Ma per tornare al surrealismo cannibale di de Andrade, il Vecchio Continente si è sempre visto come Soggetto della storia, ma dall’illuminismo di Montesquieu alle critiche di Dostoevskij, l’Europa finisce sul banco degli imputati. E oggi Putin lancia nuovi impulsi euro-fobici e scopre che il sogno ortodosso di una Terza Roma a Mosca può unirsi a una quarta Roma vagheggiata da Trump a Washington».
Il governo tedesco uscito dalle elezioni sarà l’ultimo bastione di una politica non fagocitata dalle destre neo-ciniche e sovraniste?
«Dal dopoguerra i tedeschi hanno imparato con la loro Repubblica federale a essere modesti in politica. Se gli si fanno complimenti per la loro tenuta democratica, i politici tedeschi arrossiscono. Ma è certo che la Cdu di Friedrich Merz è oggi il miglior partito socialdemocratico tedesco, e forse sì anche il bastione dell’ultima autentica socialdemocrazia in Europa».